UN UOMO IMPOSSIBILE: EUSEBIUS HIERONYMUS

di Ciro A. R. Abilitato

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Fu un uomo a dir poco impossibile, un temperamento focoso e ribelle, un vero demonio, un testardo di prima categoria: irremovibile nelle sue posizioni dottrinarie, collerico fino ad essere offensivo verso coloro che deviavano dall’ortodossia della fede, battagliero fino agli ultimi giorni della sua vita, inflessibile con se stesso, esigentissimo nei riguardi dei sostenitori della Chiesa romana, appassionato di Cicerone, Plinio, Plauto e Frontone, ma anche impareggiabile conoscitore dei sacri testi, estimatore della sensibilità femminile e fine maestro. Durante i digiuni, la sua mente ossessionata gli mettava continuamente dinanzi agli occhi l’immagine di leggiadre fanciulle danzanti e lo infervorava per gli scrittori latini e greci, finché il Padreterno in persona – almeno egli così immaginò −, non gliele diede di santa ragione, facendogli così capire a suon di sferza che il suo compito non era di starsene ad abbronzarsi al sole di Calcide e di battagliare con le mosche del deserto, bensì quello di dedicarsi seriamente alle Scritture. La sua cocciutaggine era di quelle da far perdere la pazienza ai santi. Agostino di Tagaste ne seppe qualcosa. Quando voleva, però, soprattutto quando qualcuno desiderava convertirsi o si rivolgeva a lui per consigli, sapeva anche essere incredibilmente delicato; ma se si cercava di trarlo in inganno su determinati argomenti della verità cristiana, subito diventava diffidente e scontroso, e allora non lo si poteva prendere né per le corna né per la coda. Eppure, nonostante questo suo carattere impetuoso e ostinato, è una delle figure più belle e luminose, oltre che tra le più amate, della storia della spiritualità occidentale. Personalmente, ho motivo di ritenere che fosse una reincarnazione del filosofo andaluso Seneca e che il pensatore tedesco Arthur Schopenhauer ne fosse, suo malgrado, un’altra successiva reincarnazione. Non è dato sapere se una simile peste d’uomo sia giunta alla perfezione, e quindi se abbia concluso il ciclo delle rinascite, magari dopo un ultimo passaggio per la vita di Madre Teresa di Calcutta, o se prima o poi ci ritroveremo ancora davanti uno spirito di tale vigorosa natura. Dati i tempi e conoscendo il tipo, ho però come un oscuro presentimento… Non so, come se il Paradiso volesse di tanto in tanto restituircelo!

1.

Michelangelo Merisi da Caravaggio, detto il Caravaggio (1571 - 1610) – San Girolamo scrivente, 1505-1506 – Galleria Borghese, Roma.

I temi più ricorrenti nella rappresentazione iconografica di san Girolamo sono essenzialmente due, quello del dottore della Chiesa, raffigurato nel suo studio mentre è assorto nella lettura dei libri sacri, e quella del penitente vestito di rozze pelli, esile e barbato, che conduce vita solitaria nel deserto. Nell’uno e nell’altro tipo ricorre in genere, quale attributo specifico del santo, l’immagine di un leone. Questa immagine è ispirata alla leggenda del leone che riceve le cure di san Girolamo per una spina conficcatasi in una zampa, e che, fattosi mansueto, prende a seguire devotamente l’eremita. In genere, i due tipi iconografici ricorrono indistintamente: in epoca rinascimentale, Antonello da Messina e Domenico Ghirlandaio con le loro raffigurazioni di S. Girolamo nello studio, e Cosmé Tura, Leonardo da Vinci, Tiziano Vecellio con il S. Girolamo penitente nel deserto, dove il santo è ritratto mentre si percuote il petto con una pietra davanti all’immagine del Cristo. In periodo barocco, con i dipinti di Caravaggio, Ribera e Rubens, si afferma invece il tema di origine fiamminga del santo in vesti di penitente in atto di contemplare un teschio. Non mancano però le rappresentazioni dello stridonense con il cappello cardinalizio e ricche vesti di prelato, di cui un esempio è offerto da Tommaso da Modena. Numerosi anche i cicli pittorici dedicati ai vari episodi della vita di Girolamo di Stridone, come quelli della Bibbia miniata di Carlo il Calvo, presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, quello del Carpaccio per la Scuola di San Giorgio degli Schiavoni a Venezia, e quello del Domenichino, nell’atrio di S. Onofrio a Roma.

Il Martirologio romano ricorda san Girolamo il 30 settembre. Per la sua attività di studioso, traduttore e commentatore della Bibbia è considerato il santo patrono di traduttori, interpreti, linguisti, filologi, esegeti e umanisti.

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Girolamo (o Gerolamo), il cui nome latino è Eusebius Sophronius Hieronymus, nasce da genitori cristiani di condizione agiata tra il 345 e il 347 a Stridone, città della Dalmazia (odierna Croazia) situata ai confini con la Pannonia (odierna Ungheria), rasa al suolo dai Goti nel 379, e di cui non rimangono tracce. Al suo posto sorge oggi il comune di Portole. A dodici anni, dopo aver ricevuto la prima istruzione elementare nella sua città, Girolamo parte con l’amico Bonoso per Roma, dove frequenta le lezioni del grammatico Elio Donato e del retore Caio Mario Vittorino, considerati fra i più eminenti maestri del suo tempo, i quali lo iniziano ai grandi autori della letteratura greca e latina e agli studi di retorica, che sono la porta d’accesso alle principali magistrature dell’epoca. Sotto queste autorevoli guide, Girolamo studia dunque letteratura, grammatica ed eloquenza, ma fin dal principio nutre un vivo interesse per lo studio comparato delle lingue, tanto che, circa venti anni più tardi, in una delle sue prime opere scritte a Bethlemme, il Commento alle Epistole ai Galati, egli si soffermerà sulle affinità linguistiche dei Celti dell’Asia Minore, i cosiddetti Gàlati, e degli abitanti di Treviri, antica città della Gallia fandata da Augusto tra il 16 e il 13 a.C. con il nome di Augusta Trevirorum, situata nel mezzo della valle della Mosella, sulla riva destra dell’omonimo fiume. Poco si sa della sua vita a Roma, se non dai riferimenti contenuti nelle sue stesse lettere (soprattutto le epistole 5 e 10), dove si accenna a una condotta molto disinvolta, incline alle attrattive della vita mondana. Qui, oltre a Rufino di Concordia, conosce Eliodoro, un laico di Aquileia conquistato agli ideali dell’ascetismo cristiano, futuro vescovo di Altino, e Pammachio, che appartiene a una delle più illustri famiglie romane. Lo stridonense è letteralmente rapito dal glorioso passato della città: i luoghi, i monumenti, le antiche vestigia dell’urbe, dove gli elementi classici della Roma pagana si sposano magnificamente con quelli del cristianesimo delle origini, si imprimono profondamente nella sua anima. Egli stesso ci informa della vivissima emozione in lui suscitata dalle catacombe (Comm. Ezrch. XL, V, p. 556 CC), che suole visitare con i compagni nei giorni festivi. A Roma, inoltre, all’età di circa venti anni, viene battezzato da papa Liberio.

Compiuta dunque la sua istruzione, prima del 370 lascia Roma con l’amico Bonoso per darsi a lunghi viaggi di studio. Raggiunta la Carnia (oggi regione auonoma del Friuli-Venezia Giulia), soggiorna ad Aquileia (oggi comune della provincia di Udine), all’epoca importante centro di congiunzione delle culture latina, slava e germanica, dove ritrova il suo compagno di studi Rufino di Concordia, che lo seguirà con Bonoso nei suoi spostamenti. Dopo Aquileia, Girolamo si ferma a lungo a Treviri, importante città della Germania sudoccidentale, fiorente nelle arti e negli studi e sede della corte imperiale, la cui frequentazione era ritenuta indispensabile per chi volesse intraprendere la carriera della pubblica amministrazione. Nella città renana, dove già trent’anni prima si era conosciuta l’anacoresi egiziana grazie all’insegnamento di Atanasio di Alessandria, che vi era stato esiliato tra il 335 e il 337, Girolamo viene a contatto con il monachesimo e comincia ad esserne attratto. L’esperienza è decisiva, perché con essa egli matura il proposito di rinunciare alla carriera pubblica, anche se le sue prime lettere parlano di questa decisione come già presa da tempo. Lasciata perciò Treviri, ritorna ad Aquileia, dove con Bonoso, Rufino ed Eliodoro stringe amicizia col sacerdote Cromazio, col fratello di questi Eusebio e con l’arcidiacono Iovino per unirsi al Chorus beatorum (il Coro dei beati), il circolo spirituale che stava formandosi intorno al vescovo Valeriano (373) e di cui faceva parte anche Evagrio Pontico, asceta che era giunto in Italia al seguito di Eusebio di Vercelli. Cromazio, che il Martirologio Romano ricorda come un «vero artefice di pace, pronto ad elevare le menti verso le cose più amate», alla morte di Valeriano, nel 388, sarà consacrato da Ambrogio di Milano vescovo di Aquileia. Questo sacerdote, che da tempo ha aperto la sua casa a coloro che si sentono uniti nella fede cristiana, conosce il funzionario imperiale dimissionario proveniente da Treviri, divenendo presto suo amico e sostenitore, tanto che più tardi Girolamo lo definirà il vescovo «più santo e più dotto» del suo tempo. E in casa di Cromazio, tra letture, preghiere e discussioni, Girolamo si prepara al cammino che lo condurrà in Oriente.

2.

Albrecht Dürer (Norimberga, 21 maggio 1471 – ivi, 6 aprile, 1528) – San Girolamo nello studio, 1521 – Museu Nacional de Arte Antiga, Lisbona.

Il cenacolo religioso non è chiuso alle donne. La madre di Cromazio, rimasta vedova, vi aderisce, e con essa, votate alla verginità, le tre giovani sorelle del sacerdote. Di questa esperienza Girolamo serberà sempre un vivo ricordo, come attestano alcune lettere, nelle quali lo stridonense paragona la madre di Cromazio alla profetessa Anna, le due sorelle del sacerdote alle vergini prudenti della parabola evangelica e Cromazio stesso e il fratello Eusebio al giovane Samuele (Ep. VII,4). Di Cromazio e di Eusebio Girolamo scriverà ancora nell’epistola VIII: «il beato Cromazio e il santo Eusebio erano fratelli per vincolo di sangue non meno che per identità d’ideali». Sul finire del 374, Girolamo lascia la città e parte per l’Oriente. La stessa cosa fanno anche i suoi amici: Rufino si dirige in Egitto, Bonoso raggiunge un’isola rocciosa dell’Adriatico, Eliodoro si reca in pellegrinaggio a Gerusalemme, Evagrio torna ad Antiochia. Girolamo, invece, dopo un viaggio estenuante per terra che lo porta attraverso l’Illirico[1], la Tracia, la Bitinia (Turchia settentrionale, tra il Mar di Marmara e il Mar Nero), il Ponto (Turchia nord-orientale, lungo il Mar Nero) e la Galazia (Turchia centrale), giunge in Cappadocia (Turchia sud-orientale). Nel 374, dopo un breve soggiorno ad Antiochia, durato solo qualche mese per riprendersi dalle fatiche del viaggio, e dove ha occasione di rivedere l’amico Evagrio, si spinge all’interno della Siria per ritirarsi infine nel deserto di Calcide (lat. Chalcidis desertum), a sud di Aleppo, dove vivrà per due anni in durissima ascesi. Il deserto era chiamato di Calcide da una città di tal nome appartenente alla diocesi di Antiochia, situata presso il monte Belo, la quale era il capoluogo di una vasta regione, la Calcìdena (o Calcidene), fertilissima nella parte occidentale (attraversata da nord a sud dalla Great Rift Valley), e occupata da un deserto stepposo nella parte sud-orientale. Plinio il Vecchio, riferendosi alla parte occidentale, ove sorgeva la città di Chalcis, così ne parla nella sua Naturalis Historia: «Chalcidem cognominata ad Belum, unde regio Chalcidena fertilissima Syriae » [denominata Calcide al Belo, da cui ha preso il nome la Calcìdena, la più fertile regione della Siria]. La città che Plinio chiama Calcide del Belo (lat. Chalcis ad Belum) è denominata in arabo Qinnasrīn, nome derivante dall’aramaico Qenneshrin, che significa “nido delle aquile”. Con questo nome è oggi indicato un sito archeologico situato a 40 km a sud-ovest di Aleppo.

La decisione di Girolamo è probabilmente incoraggiata da un santo monaco di nome Malco, che dimora in uno dei possedimenti di Evagrio a Maronìa (odierna Maronèa, città dell’antica Tracia, sull’Egeo, appartenuta alla provincia romana di Rodope). A questa esperienza anacoretica si ispireranno i pittori che lo rappresentano emaciato e scheletrico a causa delle privazioni e delle frequenti malattie: dal Cima da Conegliano della pinacoteca di Brera e della National Gallery di Londra, al Giovanni Bellini del Museo di Pesaro; dal Leonardo da Vinci della Pinacoteca Vaticana al Tiziano di Brera. Attributi di questo Girolamo penitente sono, oltre al leone, la pietra con la quale, secondo la leggenda, il santo si percuoteva il petto, la disciplina e il teschio. Le scene delle tentazioni ricalcano il modello di Sant’Antonio, come quella dell’affresco del Domenichino nella chiesa di Sant’Onofrio a Roma, dove il demonio, assunte sembianze mostruose, striscia ai piedi del santo, tormentandolo con danze di leggiadre fanciulle.

Quando arriva in Calcide di Siria (375-376), Girolamo ha circa trent’anni. Ma la vita anacoretica non significa per lui soltanto privazione, mortificazione e preghiera, essa è anche l’occasione che deve consentirgli di perfezionarsi nella conoscenza dei testi sacri. Per Girolamo, infatti, l’ascesi deve sì essere rinuncia al lusso e al mondo, ma anche educazione, studio, riflessione. Egli considera l’esperienza mistica come qualcosa che deve trovare la sua giustificazione direttamente nella parola della Scrittura, a cui non può certo avvicinarsi un animo rozzo, ignorante e insensibile. Le sacre scritture devono dunque essere studiate, meditate e comprese nei loro significati più autentici e profondi, ed essere vissute con sensibilità e finezza.

Nel deserto Girolamo continua dunque a perfezionarsi nella lingua greca e inizia lo studio dell’ebraico con l’aiuto di un giudeo convertito al cristianesimo. In questo tempo avviene il famoso mutamento intellettuale del santo, che si distacca decisamente dalla letteratura pagana per dedicarsi con passione all’esegesi della Sacra Scrittura, come egli stesso racconterà ad Eustochio in una famosa lettera scritta nel secondo periodo romano (Ep. XXII, 30):

«Referam tibi meae infelicitatis historiam. Cum ante annos plurimos domo, parentibus, sorore, cognatis et, quod his difficilius est, consuetudine lautioris cibi propter caelorum me regna castrassem… Ti narrerò una storia della mia vita travagliata. Quando molti anni fa mi amputai dei miei affetti più cari, abbandonando per il regno dei cieli casa, genitori, sorella, parenti e, cosa ancora più difficile, rinunciando a piacevoli e lauti pranzi per dirigermi alla volta di Gerusalemme a militare per Cristo, non potevo restare privo della biblioteca che a Roma mi ero messa insieme con molta cura e fatica. E così io, sciagurato, digiunavo per poi leggere Cicerone. Allo stesso modo, dopo frequenti veglie notturne e dopo le lacrime che il ricordo degli antichi peccati mi strappava dal profondo dell’animo, prendevo in mano Plauto. E se, rientrato in me, talvolta cominciavo a leggere i profeti, mi disgustava quella loro lingua disadorna. Non vedendo dunque la luce a causa della cecità degli occhi, non andavo all’idea che la colpa fosse degli occhi e non del sole».

A questo punto Girolamo descrive ad Eustochio il sogno o la visione che ebbe:

«Dum ita me antiquus serpens inluderet… Così, mentre in questo modo l’antico serpente si faceva beffe di me, verso la metà della Quaresima la febbre mi penetrò fin nelle midolla, impadronendosi del mio corpo già esausto; così, senza un attimo di tregua – perfino a dirlo è difficile a credersi – mi consumò le membra infelici al punto che a stento restavo attaccato alle mie ossa. Intanto si preparava il funerale. Il corpo infatti era già freddo, giacché il calore vitale dell’animo continuava a palpitare solo nel misero e appena tiepido petto. Improvvisamente, rapito nello spirito, vengo tratto dinanzi al tribunale del Giudice, dove c’erano tanta luce e tanto fulgore irradiato dai presenti che io, gettatomi a terra, non osavo sollevare lo sguardo. Interrogato sulla mia condizione, risposi di essere cristiano. Ma a queste parole, colui che presiedeva disse: “Tu menti, non cristiano ma ciceroniano: dov’è infatti il tuo tesoro, lì è anche il tuo cuore”. Subito ammutolii, e tra le percosse – egli infatti aveva ordinato che fossi percosso – ancor più ero tormentato dal fuoco della conoscenza, mentre tra me rammentavo quel versetto che dice: Ma all’Inferno chi canterà le tue lodi? Cionondimeno iniziai a gridare e, lamentandomi ad alta voce, ad implorare: Pietà di me, Signore, pietà. Queste parole risuonavano tra i colpi della sferza. Alla fine, gettatisi alle ginocchia di colui che presiedeva, gli astanti lo supplicarono di concedermi il perdono, se non altro, almeno in considerazione della mia giovane età, nonché per dare all’errore una possibilità di rimedio con la penitenza, giacché avrebbe Egli potuto riprendere il supplizio se mai fossi ritornato a leggere libri di scrittori pagani. Io, che in una simile e così critica circostanza sarei stato disposto a promettere molto di più, chiamando a testimonio il suo nome cominciai a giurare e a dire: “Signore, se ancora avrò tra le mani libri mondani, se ancora li leggerò, sarà come se ti avessi rinnegato».

Naturalmente, questo proponimento non deve essere inteso alla lettera, altrimenti si dovrebbe concludere che Girolamo non riuscì a mantenerlo. Ad ogni modo, dopo una simile e così esemplare lezione, descritta in quella che ci è nota come la visione di Antiochia o del deserto, nella stessa lettera Girolamo ammette di non aver mai letto, da allora in poi, i sacri testi con più fervore di quanto ne avesse avuto prima nel leggere i profani. E continua dicendo ad Eustochio che «non si era trattato di un sogno, né di quelle vane fantasie da cui spesso siamo ingannati», ma di essere stato realmente dinanzi a quel tribunale e di aver realmente ricevuto quelle percosse, tanto vere da ritrovarsi al risveglio con le membra dolenti e le spalle livide e ricoperte di piaghe sotto gli sguardi meravigliati di tutti. «Non mi capiti mai più – aggiunge Girolamo – di imbattermi in un simile processo!» [ita mihi numquam contingat talem incidere quaestionem!].

L’ascesi di Girolamo non si svolge però nella più completa solitudine. Il deserto è popolato da numerosi eremiti, i quali, pur conducendo vita solitaria, sono in contatto fra loro e trovano occasione di riunirsi per la meditazione e la preghiera. Nonostante ciò, Girolamo non vuole sentirsi lontano dai suoi amici, e invia loro lettere piene di sincera commozione e di affetto, pregandoli di scrivergli affinché essi pure non si dimentichino di lui. È evidente che Girolamo avverte il bisogno di comunicare con le persone che gli sono care, cercando sostegno nella sua difficile impresa, la quale, se lo allontana da certi mali del mondo, senz’altro lo avvicina ad altri, mettendolo a diretto contatto non solo con le più forti pulsioni della natura umana, capaci di annientare la ragione in un’impari lotta, ma anche con la realtà del mondo che, vista da un punto di osservazione così particolare, quale appunto il deserto della solitudine, gli appare in tutti i suoi aspetti più contraddittori. Inoltre, la vita che Girolamo trascorre nel deserto non è come quella dei suoi vicini. Il deserto deve significare per lui esercizio spirituale, dominio delle passioni, preghiera, rinuncia al mondo, ma non per questo deve essere una vita di ignoranza e di abbrutimento intellettuale. Pertanto, accanto alle mortificazioni e alle preghiere, egli dedica buona parte della sua giornata anche al lavoro erudito e allo studio dei testi sacri. Nella corrispondenza con i suoi amici, Girolamo cita più volte titoli di libri che ha letto o che intende leggere, e che perciò richiede perché gli vengano inviati. È infatti proprio in questo periodo che ha inizio quell’intensa attività di apprendimento dell’ebraico che fa di Girolamo un personaggio unico del suo tempo, ove l’ebraico, fatta eccezione per Origene, è totalmente ignorato dagli scrittori cristiani. La conoscenza che Girolamo ne ebbe fu invece superione non soltanto a quella dei suoi contemporanei, ma anche a quella che altri ne ebbero per molti secoli dopo di lui.

Quarant’anni dopo, questa esperienza di meditazione e di studio sarà così ricordata nell’epistola 125:

«Dum essem iuvenis et solitudinis me deserta vallarent, incentiva vitiorum ardoremque naturae ferre non poteram… Quando ero giovane, non riuscendo a sopportare lo stimolo dei desideri e l’ardore della natura, feci in modo di difendermene ricorrendo al deserto della solitudine, dove cercai di domarli per mezzo di digiuni ripetuti, ma la mia mente ribolliva di fantasticherie. Per domarle, mi misi alla scuola di un ebreo convertito alla nostra fede, affinché, dopo le finezze di Quintiliano, e l’abbondanza della parola di Cicerone, e la solennità di Frontone, e la piacevolezza di Plinio, potessi imparare l’alfabeto ebraico e cominciare a meditare su quelle parole stridule e strozzate. Quanta fatica! Quante difficoltà! Quante volte disperai! Quante volte smisi, ma poi, intestarditomi ad imparare, ripresi! Che quelle fatiche io davvero sopportai, possono testimoniarlo tanto la mia coscienza, quanto la veracità di coloro che vivevano con me».

3.

Lorenzo Lotto (Venezia, 1480 – Loreto 1556) − San Gerolamo penitente, 1506 – Louvre, Parigi. La piccola figura solitaria dell’anacoreta è ritratta su uno sfondo roccioso in cui si riconosce l’asprezza incombente dei paesaggi nordici. Questa particolarità è in genere attribuita all’influenza esercitata sul giovane pittore veneziano da Albrecht Dürer, che soggiornò a Venezia nell’ultimo decennio del Quattrocento.

Ma la vita nel deserto lo delude, perché Girolamo, pronto com’era stato a sopportare qualunque privazione e sacrificio pur di attuare quello che egli considerava l’ideale di vita cristiana, che non ammette patteggiamenti né cedimenti, trova con dolore che quella realtà è inferiore a quanto si era aspettato. Il fatto è che anche in quella solitudine viene a trovarsi troppo coinvolto nelle diatribe teologiche fra gli eremiti divisi dall’eresia ariana. Inoltre, quantunque il suo ideale fosse condiviso anche da altri, in Girolamo risente fortemente del carattere ossessivo delle sue convinzioni e degli aspetti meno gradevoli di un temperamento scontroso e irascibile. Perciò, in alcune lettere Girolamo confessa come cominciasse a sentirsi angustiato dagli astî e dalle inimicizie che perfino in quella sperduta landa, lontana dagli agi del mondo, riuscivano ad allignare fra gli uomini, manifestando il suo disappunto per il fatto di non sentire di aver pienamente realizzato, nemmeno in quei luoghi desolati, il suo ideale di vita ascetica. In effetti, alle lotte religiose del Basso Impero partecipano, con una aggressività e un accanimento inauditi, anche i monaci e gli eremiti di Calcide, e Girolamo, suo malgrado, si trova coinvolto in una di esse. Andava infatti sorgendo in quegli anni il cosiddetto scisma di Antiochia, fomentato da interessi politici e sostenuto da contrasti di segno puramente teologico intorno ai principî della fede.

Girolamo, che non si era mai interessato di controversie trinitarie, tanto che nemmeno nella sua vasta produzione successiva di commentatore biblico si troverà mai un trattato teologico in senso stretto, da buon occidentale prende le distanze dalle sottigliezze dialettiche dei teologi orientali. Perciò, ponendosi con il suo carattere irascibile e impaziente su posizioni molto critiche verso di esse, egli non fa che uniformarsi al suo fortissimo senso del dovere e alla sua volontà di perseverare nella retta fede, per il resto rimettendosi al giudizio del vescovo di Roma. D’altra parte, i nomaci del deserto, quasi tutti indigeni e di nessuna cultura, vedono in lui uno straniero che considera il monachesimo in modo incomprensibilmente diverso da loro; uno che non parla la loro lingua e che è estraneo alla loro mentalità, giacché, invece di attenersi ad una rigida regola di mortificazione e di preghiera, Girolamo legge e scrive libri e ha contatti con Roma e con eminenti personalità religiose di Antiochia. Inoltre, poiché questi monaci sono coinvolti in esasperanti dispute teologiche e sono fra loro divisi dall’eresia ariana, finiscono con l’essere verso di lui indiscreti e invadenti. Nella pretesa di guadagnare questo straniero alla loro causa (verosimilmente, alla dottrina delle tre ipostasi elaborata dai cappadoci), essi gli chiedono con insistenza di rendere manifeste le sue posizioni, esigendo da lui una chiara professione di fede. Ma ciò che riescono ad ottenere è solo la reazione spazientita dello Stridonense che, seccato dalle continue intrusioni e disgustato dai meschini sotterfugi ai quali i suoi vicini ricorrono per averlo dalla loro, scrive due volte a papa Damaso (epist. 15 e 16) per avere lumi e chiedere come comportarsi. Dopo due o tre anni passati nel deserto di Calcide, nel 376 o 377, Girolamo, deluso e insoddisfatto, come dichiara in un’altra delle sue lettere (epist. 17), decide di abbandonare la vita eremitica. Questo non significa però per lui abbandono dell’ideale ascetico, il quale, invece di uscire demolito da questa esperienza, si ripropone nel suo intimo con maggior forza e con rinnovato entusiasmo. Tuttavia, poiché nel deserto non è riuscito a realizzarlo, vi si vuole ora dedicare proprio calandosi nella realtà del mondo, ma sempre nel modo che ritiene più consono alle sue aspirazioni, vale a dire attraverso la pratica della spiritualità, l’insegnamento e lo studio scientifico della Scrittura.

4.

Antonio Colantonio (1420 ca. – Napoli, 1470 ca.) − San Gerolamo nello studio con il leone, ca. 1445-1446) - San Lorenzo Maggiore - Napoli

Nel 377 Girolamo ritorna dunque ad Antiochia, ospite di Evagrio, lui pure scrittore ed asceta, e frequenta la scuola di Apollinare di Laodicea, il quale, pure essendo in odore di eresia per la sua dottrina della incarnazione di Cristo, è famoso come esegeta della Scrittura. Qui, nel 379, Girolamo si lascia ordinare sacerdote dal vescovo Paolino, a patto di conservare la sua indipendenza di monaco, e sempre qui scrive la Vita Pauli, biografia del famoso eremita Paolo di Tebe, nonché l’Altercatio Luciferiani et Orthodoxi, sua prima opera polemica, con la quale critica le posizioni di Lucifero di Cagliari e dei suoi seguaci. Dopo Antiochia, Girolamo si sposta a Costantinopoli, rimanendovi due anni per seguire l’insegnamento del grande Gregorio di Nazianzo, padre della Chiesa orientale, e dove, anche grazie a Gregorio di Nissa, conosce Origene, scrittore cristiano di lingua greca, per il quale si entusiasma, e di cui traduce varie omelie esegetiche in latino insieme al Chronicon di Eusebio di Cesarea. Quando, nel 381, bersagliato da critiche e lagnanze, Gregorio Nazianzeno si dimette dall’incarico di vescovo e lascia Costantinopoli per ritirarsi a Nazianzo, Girolamo, vedendo che la situazione è cambiata e non gli è più favorevole, coglie l’occasione per seguire Paolino di Antiochia ed Epifanio di Salamina a Roma, i quali vi si recano per assistere al concilio indetto da Damaso I in merito allo scisma antiocheno.

Nel 382 Girolamo è dunque a Roma, dove riscuote numerose simpatie e acquista notorietà negli ambienti colti, nei quali diviene noto come l’anacoreta venuto dal deserto di Calcide e come l’uomo che ha conosciuto personalmente i grandi dottori di Costantinopoli e di Antiochia.

Girolamo riscuote anche la stima di papa Damaso, che lo elegge suo segretario e che, come attestano le epistole 35 e 36, non esita a ricorrere a lui per farsi chiarire diverse questioni di esegesi biblica. Damaso, di origine spagnola, eletto papa nel 366 in seguito a veri e propri scontri armati con il suo avversario Ursino, pur essendo già molto avanti negli anni, è uomo di grande energia e sagacia. Difesore del primato ecclesiastico di Roma su Costantinopoli, era stato il primo a dichiarare la Chiesa di Roma “Sede apostolica”. Amico di Ambrogio di Milano, che lo sostiene nella lotta contro l’arianesimo, si era adoperato per fornire una sede adeguata agli archivi papali ed aveva fatto restaurare numerosi monumenti funebri di martiri nelle catacombe della città. Letterato egli stesso, era molto riverito dai cristiani degli ambienti aristocratici, soprattutto dalle gentildonne romane, cosa che gli vale l’appellativo di matronarum aurisclapius, cioè di “accarezzatore delle orecchie delle matrone”. Damaso, riconoscendo la profonda competenza maturata da Girolamo sui testi sacri, lo incarica di rivedere anche le antiche versioni latine della Bibbia e di avviare una prima revisione del Salterio.

La revisione del testo sacro dei cristiani fu un’impresa a dir poco ciclopica, non solo perché oltrepassava i limiti dell’erudizione biblica, ma anche perché richiedeva una competenza vastissima, che certamente non poteva fermarsi alla sola conoscenza delle lingue. Non avrebbe potuto essere, insomma, un’impresa per un singolo uomo, sia per il significato che un simile lavoro assumeva sul piano religioso, sia in relazione a quanto ha poi effettivamente rappresentato per la storia della Chiesa e della civiltà occidentale. Girolamo, dal suo canto, consapevole delle difficoltà del compito affidatogli e delle responsabilità che gliene sarebbero derivate, scrive a papa Damaso quella che poi divenne la prefazione alla sua revisione dei Vangeli (P.L. XXIX, 557), dove, fra le altre cose, accenna alla necessità di fondare il lavoro sui testi originali, invece che sulle numerose versioni latine esistenti:

«Mi costringi ad organizzare un lavoro nuovo da uno vecchio, nel senso cioè, che io debba assidermi come un arbitro, dopo che i codici della Scrittura sono andati dispersi in tutto il mondo, e che io sappia discernere – dato che quei codici sono diversi l’uno dall’altro – quelli che si accordano alla Graeca veritas. Pia è questa fatica, ma temibile la presunzione di giudicare gli altri quando si deve essere giudicati da tutti. Cambiare la lingua dei vecchi e ricondurre alle origini della fanciullezza un mondo ormai canuto: quale persona (dotto o ignorante), prendendo tra le mani il mio volume e vedendo che il testo è diverso da quello a cui è abituato, non si metterà subito a gridare che sono un falsario, un sacrilego, perché oso aggiungere qualcosa ai libri antichi, cambiare e correggere? Di questo risentimento che andrò a subire, due sole cose mi consolano: una è che sei tu, il sommo Sacerdote, a ordinarmelo; l’altra è il considerare che quello che si presenta in diverse guise non può essere autentico, come anche provano le testimonianze dei miei calunniatori. Se dobbiamo prestar fede alle redazioni latine, che ci dicano perlomeno a quali: vi sono, infatti, tante versioni quanti sono i codici. Se invece si deve cercare la verità in mezzo a tante redazioni, perché non tornare all’originale greco e non correggere quel testo che è stato mal reso da traduttori incapaci, o perversamente corretto da ignoranti presuntuosi, o interpolato da copisti disattenti?».

Il lavoro di Girolamo sul testo biblico ha dunque inizio a Roma nel 383, cioè quando egli si trovava alla corte di papa Damaso ed era al culmine della sua fama. Egli affronta il compito con la mentalità del filologo e del critico del testo, avvalendosi di tutto ciò che aveva potuto imparare non solo da un maestro come Origene, ma anche da un pagano come Elio Donato, che continuò a chiamare fino all’ultimo dei suoi giorni praeceptor meus (il mio precettore).

5.

Leonardo da Vinci (Vinci, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio, 1519) – San Girolamo penitente nel deserto,1480 – Musei Vaticani, Città del Vaticano

Al tempo di Girolamo, il Vecchio Testamento era sì scritto in gran parte in ebraico, ma quello che i cristiani leggevano non era più l’originale, bensì la cosiddetta versione dei Settanta, eseguita dall’ebraico al greco nel III secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto, ed ampliata da scritti coevi in lingua greca. Parimenti in greco era il testo originale del Nuovo Testamento, ma nel IV secolo il greco non era più conosciuto come nei primi secoli dell’impero, se non negli ambienti colti. Inoltre, le traduzioni latine allora conosciute (e quindi anche quelle cosiddette ‘rustiche’, cioè popolari) ricalcavano le versioni eseguite nel corso del II secolo in Africa e in Italia, rispettivamente conosciute col nome di Afra e di Itala. Queste traduzioni apparivano però agli occhi di Girolamo gravemente manchevoli. Eseguite da traduttori anonimi e di scarsa cultura in ambienti ed epoche diversi, esse erano caratterizzate da un linguaggio grezzo, inelegante ed avevano ormai fatto il loro tempo, in quanto mal si adattavano all’usus scribendi e al parlare dei cristiani del IV secolo.

Sin dal principio Girolamo sente perciò l’esigenza di affrontare il lavoro sui sacri testi non attraverso le forme mediate che ne avevano consentito la diffusione in tutto l’Occidente cristiano, bensì sugli originali ebraici e greci. Egli ricorre perciò a un originale greco di buona fattura conforme al testo alessandrino del Nuovo Testamento e dà avvio al suo lavoro iniziando con i Vangeli. Per quanto riguarda il metotodo, dichiara apertamente di voler rimanere fedele allo spirito originale della lettera, e che per questo motivo sarebbe ricorso all’originale ebraico tutte le volte che si sarebbe trovato di fronte a citazioni del Vecchio Testamento. Inoltre, poiché il suo sforzo è teso al recupero della originale integrità del messaggio e alla ricostruzione del suo significato autentico, egli si limita ad apportare correzioni solo dove ritene necessario, usando lo stilo come avrebbe oggi fatto un chirurgo nel separare col bisturi o col laser un tessuto sano da uno malato.

Damaso non avrebbe voluto una nuova traduzione ma solo una revisione del vecchio testo. Tuttavia, l’antica traduzione, molto grecizzante per eccessivo scrupolo di fedeltà all’originale, nelle mani di Girolamo si trasforma. Quantunque egli si proponga di intervenire solo là dove il testo si presenta corrotto o dà adito a interpretazioni poco fedeli al senso originale della Scrittura, il risultato è che l’espressione via via si modifica, assumendo una fisionomia più latina.

Girolamo non solo libera il testo da tutti i barbarismi e i solecismi di cui era infarcito, sostituendo i termini impropri con termini più calzanti e rimpiazzando le costruzioni sintattiche intollerabili con un periodare più armonioso e quasi metricamente scandito, ma si preoccupa anche di evitare ogni banalizzazione della Parola, errore in cui è sempre pittosto facile cadere a causa della naturale semplicità dell’espressione biblica, di per se stessa già scarna ed essenziale. Nel tentativo di armonizzare lo stile dimesso dell’espressione, egli si sforza anche di contemperare la chiarezza e la pregnanza del testo con uno stile che deve mantenersi il più possibile aderente alla naturale semplicità del sermo umilis. Girolamo, in pratica, non vuole sostituire una traduzione, per quanto invecchiata nei suoi principi e nelle sue attuazioni, con un’altra traduzione, e nemmeno desidera rielaborare artisticamente il testo, perché esso deve continuare ad essere quello che è sempre stato per ogni cristiano. Per questo suo senso di onestà, Girolamo non solo risalta come letterato, ma ancor più come letterato cristiano, perché gli era ben chiaro che il testo sacro, dovendo rimanere fedele il più possibile sia alla lettera che alla originaria verità della parola divinamente ispirata, è qualcosa di completamente diverso da un testo letterario. Le scelte di Girolamo si rifletterono anche sull’ordine di successione dei Vangeli, che non fu, come nelle attuali edizioni, Matteo, Marco, Luca e Giovanni, ma Matteo, Giovanni, Luca e Marco, rimanendo anche in questo fedele agli antichi manoscritti greci. Girolamo tradusse quindi direttamente dai testi originali tutti i libri protocanonici del Vecchio Testamento, più Tobia e Giuditta. Questo lavoro, presentato a papa Damaso nel 384, costituì il primo nucleo di quella che fu poi la Bibbia Latina, la quale, oltre mille anni più tardi, venne ufficialmente riconosciuta dal Concilio di Trento[2] (1545-1563) con il nome di Vulgata. Per quanto riguarda i Salmi e gli altri libri del Nuovo Testamento, il lavoro fu proseguito a Bethlemme negli anni successivi.

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Alla fine del IV secolo, la società romana si presenta come una realtà composita e disomogenea, caratterizzata da una incredibile varietà di genti provenienti da ogni angolo dell’impero, da una miriade di idiomi diversi che sono parlati nell’impenetrabile intrico dei suburbi e da una eguale varietà di costumanze e di pratiche religiose. Anche se il cristianesimo, a partire dal 380, è la religione ufficiale dell’Impero, esso ha ancora un peso relativo in vasti strati di popolazione. Inoltre, in molti ambienti aristocratici romani, particolarmente conservatori e legati alle memorie del passato, il culto degli antichi idoli continua ad essere praticato soprattutto dagli uomini. In queste famiglie accade così che le donne simpatizzino per il cristianesimo, e che pratichino da vedove un ascetismo più o meno severo. Al tempo in cui Girolamo si trova a Roma, queste donne dell’alta aristocrazia, colte e raffinate, soprattutto vedove, avevano già formato dei circoli spirituali ed erano interessate allo studio della Bibbia. Una di queste è Melania, ricca gentildonna di origine spagnola, che era rimasta vedova in giovane età e che aveva perso due figli. Avendo deciso di non passare a seconde nozze, ella aveva affidato a un tutore l’unico figlio rimastole ed aveva abbandonato i suoi beni per dedicarsi a una vita di penitenza e di preghiera. Nell’autunno del 371, insieme ad altre dame dell’aristocrazia romana, Melania si era imbarcata per Alessandria, ove aveva incontrato Rufino, che allora studiava in quella città con Girolamo alla scuola del famoso esegeta Didimo il Cieco[3]. Successivamente Melania si era recata nel deserto della Tebaide[4] per visitare i monaci che ivi dimoravano e per aiutarli durante la persecuzione scatenata contro di loro dall’imperatore ariano Valente. Era stata poi in Palestina e aveva fondato a Gerusalemme, sul Monte degli Olivi, un monastero femminile, mentre Rufino ne aveva fondato un altro per gli uomini non molto lontano, rimanendo direttore spirituale di Melania.

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Cima da Conegliano (1459 - 1517) − San Girolamo penitente nel deserto, 1495 – Museo di Belle Arti, Budapest

Quando Girolamo giunge a Roma, esiste dunque già una forte tradizione di vita ascetica, anche se praticata tra le mura domestiche, ed esistono anche queste prime forme di vita spirituale femminile, continuazione, se si vuole, di una tradizione inaugurata dalla stessa Maria di Nazateth e dalle altre donne che al tempo delle origini si erano riunite intorno al Nazareno. Già da tempo, un cenacolo composto di dame si era formato intorno alla nobildonna Marcella e si riuniva periodicamente nella sua casa all’Aventino. Fra le dame che vi fanno parte vi è la vedova Paola, discendente della famiglia degli Scipioni Emiliani, che in seguito darà vita a un altro cenacolo spirituale aperto a vergini e a vedove. Di questo gruppo Girolamo diviene presto il consigliere e il direttore spirituale. Queste donne, ricche, colte e di fini sentimenti, rappresentano per Girolamo le amicizie di cui ha bisogno, soprattutto perché i suoi compagni di studio e di vita monastica si sono ormai da tempo dispersi per il mondo. Girolamo conosce Paola attraverso il vescovo Epifanio, col quale si era imbarcato nel 382 per raggiungere Roma, e che la nobildonna aveva ospitato nella sua casa, non lontana dall’attuale palazzo Farnese. Paola era stata sposata a un ricco senatore, da cui aveva avuto quattro figlie e un figlio. Blesilla, la maggiore delle figlie di Paola, ha circa vent’anni quando Girolamo arriva a Roma con Epifanio. Lo stridonense si prende subito affettuosa cura di lei, cercando di conquistarla ai suoi insegnamenti, ma presto si convince che la giovane, a causa della sua bellezza e della sua indole orgogliosa, non avrebbe facilmente accettato di votarsi all’austera vita di privazioni e di preghiera che egli le prospettava. La secondogenita, Eustochio, che aveva frequentato con la madre la casa di Marcella, è invece molto presa dalla vita spirituale, a cui si dedica con entusiasmo. La terza è Paolina, che ha sposato il senatore Pammachio, ex compagno di studi di Girolamo. Vi sono poi Rufina e il piccolo Tossozio. Del circolo cristiano di Paola fa anche parte la laboriosa Asella, un’altra nobildonna che, votatasi alla verginità sin dall’età di dodici anni, vive in una cella, dedita ai lavori domestici e a frequenti digiuni. Lavorava continuamente per i bisognosi, e al tempo stesso pregava. Soleva visitare anche le tombe dei martiri, ma nell’oscurità, rallegrandosi se nessuno la riconosceva. Secondo la testimonianza di Girolamo, la durissima vita di clausura non le fiaccò il fisico, ma al contrario, a cinquant’anni viveva in ottima salute, e ancor più sana in spirito. Asella visse così fino a tarda età, raccolta nella sua clausura e nella sua vita di penitenza, serbando nel cuore l’amore per la sorella, anch’essa vergine. Di Asella, vent’anni dopo la partenza di Girolamo da Roma, scrisse anche lo storico Palladio che, testimoniandone la spirituale bellezza e l’impegno alla guida di alcuni monasteri, così si esprime: «Ho visto a Roma la bella Asella, questa vergine invecchiata nel monastero. Era una donna dolcissima, che mandava avanti diverse comunità». Il nome Asella significa in latino asinella, ma non era un nome ingiurioso, né ridicolo. Era infatti usato in senso affettuoso, forse in omaggio alla pazienza e alla docilità del laborioso asinello. Asella vergine, detta anche Asella di Roma, è oggi una santa, la cui memoria liturgica cade il 6 dicembre. Le sue reliquie, onorate fino al XIX secolo nella basilica dei Santi Bonifacio e Alessio all’Aventino, a Roma, sono oggi racchiuse in un simulacro di pasta di cera che si trova nella chiesa di San Ciro e San Sepolcro a Cremona. E vi è poi Lea, vedova anch’essa, che dopo la morte del marito ha abbandonato completamente la vita di società per darsi alla vita contemplativa. A questo gruppo di donne Girolamo dedica molte lettere (epistole 25-30; 34; 37; 41-42), insegna le Scritture, fornisce indicazioni che riguardano la vita spirituale ed espone questioni relative all’interpretazione dei testi sacri.

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È qui a Roma che Girolamo, nella famosa epistola 22, descrive alla giovane Eustochio, divenuta la sua prediletta, la vita da lui condotta nel deserto:

«O quotiens in heremo constitutus et in illa vasta solitudine, quae exusta solis ardoribus horridum monachis praestat habitaculum… Oh, quante volte, stabilitomi nel deserto, in quella vasta solitudine che, bruciata dal calore del sole, offre ai monaci una squallida dimora, ho pensato di prender parte ai piaceri di Roma! Sedevo solingo, perché ero pieno di amarezza. Le mie menbra deformi erano rese ruvide dal sacco, la mia pelle lurida era diventata nera come la carne di un etiope. Ogni giorno lacrime, ogni giorno gemiti, e se talvolta, nonostante le mie resistenze, il sonno mi opprimeva e mi vinceva, acciaccavo le mie ossa, che a fatica stavano insieme, sulla nuda terra. Non ti dico poi dei cibi e delle bevande, dal momento che lì anche i malati usano acqua fredda, per cui prendere qualcosa di cotto è un godimento. Proprio io, dunque, che per timore della geenna mi ero condannato volontariamente a questa prigione, in compagnia soltanto di scorpioni e di belve, spesso immaginavo di essere in mezzo a danze di fanciulle. Il mio volto era pallido per i digiuni, eppure la mia mente, nel corpo freddo, bruciava per i desideri; così, già morta la carne, davanti a quell’uomo così malmesso, totalmente ridotto in loro potere, ribollivano solo gli incendi delle passioni».

Come però sempre accade in simili circostanze, agli occhi degli estranei, soprattutto di coloro che sono dediti alla chiacchiera inopportuna, tali interessi appaiono molto meno sublimi ed elevati, sicché Girolamo e tutti coloro che egli frequenta sono fatti spesso oggetto di critiche e di maldicenze più o meno velate. A ciò contribuiscono certamente gli attacchi di Elvidio contro l’ascetismo, ma anche le dicerie che divampano dopo la morte di Blesilla; fatto questo di cui lo stridonense è ritenuto responsabile dai suoi nemici a causa, si diceva, dei suoi cattivi insegnamenti e dell’insano stile di vita a cui esortava le seguaci. Blesilla, dopo l’arrivo di Girolamo a Roma, aveva contratto matrimonio con un giovane aristocratico, e per un certo tempo aveva condotto una vita fastosa; ma dopo appena sette mesi di matrimonio era rimasta vedova, mentre un fortissimo ed improvviso attacco di febbre aveva messo a rischio la sua vita. Ripresasi però dalla malattia, ella era apparsa profondamente cambiata ed aveva accettato di aderire alla regola di vita propugnata da Girolamo. Alla circostanza della morte di Blesilla si riconduce l’epistola 39 che Girolamo, affranto, invia alla madre della giovane per consolarla ed esprimerle il proprio insanabile dolore.

«Quis dabit capiti meo aquam et oculis meis fontem lacrimarum, et plorabo - non, ut Hieremias ait, vulneratos populi mei nec, ut Iesu, miseram Hierusalem… Chi darà al mio capo dell’acqua e ai miei occhi una fontana di lacrime per piangere, non come dice Geremia, i feriti del mio popolo, né, come Gesù, la sciagurata Gerusalemme, ma per piangere la santità, la misericordia, l’innocenza, la purezza e tutte queste virtù insieme in un’unica persona? E piangere non perché si debba stare in lutto per colei che se n’è andata, ma perché ci dogliamo inconsolabilmente per il fatto di non poter più vedere una simile creatura. Chi può infatti ricordare con occhio asciutto… Chi, senza singhiozzare, può rammentare la costanza nella preghiera, l’eleganza dell’espressione, la tenacia della memoria, l’acume dell’ingegno?… Se tu l’avessi udita parlare in greco avresti giurato che non sarebbe stata capace di farlo in latino; ma se la sua lingua si volgeva all’idioma romano non si sentiva il minimo accento straniero. Inoltre, cosa che tutta la Grecia ammira nel famoso Origene, non dico in pochi mesi, bensì in pochi giorni, aveva vinto le difficoltà della lingua ebraica a tal punto da poter gareggiare con la madre nell’apprendere e nel cantare i salmi. Contrariamente alla maggior parte delle persone, la semplicità delle vesti non metteva in evidenza uno spirito orgoglioso, perché fin nel profondo dell’animo ella si era umiliata… Il passo vacillava per la malattia, il collo esile sorreggeva a fatica il volto pallido e tremante, e tuttavia nelle sue mani c’erano sempre i profeti e il Vangelo. Il viso mi si riempie di lacrime, i singhiozzi mi strozzano la voce, e il cuore commosso lega e impedisce la lingua. Quando le febbri ardenti bruciavano il suo delicato e santo corpo e il cerchio dei parenti circondava il letto di lei esanime, ella raccomandò come sua ultima volontà di pregare per lei il Signore affinché la perdonasse ‘poiché – così diceva – non sono stata capace di portare a compimento ciò che volevo’. Siine certa, mia Blesilla, che lo hai fatto, noi ne siamo fermamente convinti, perché tu stessa sei la prova della verità di quanto andiamo dicendo: non è infatti mai troppo tardi per la conversione. Questa sentenza fu resa nota per la prima volta a proposito del ladrone: In verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso. Ed è così che l’anima, abbandonato il fardello del corpo, se n’è volata di nuovo verso il suo fattore, risalendo, dopo lungo esilio, alla sua dimora d’un tempo».

La vita dello stridonense a Roma continua ad essere angustiata dai frequenti attacchi di Elvidio, un laico che era stato discepolo del vescovo di Milano Aussenzio (un ariano imposto da Costanzo II), il quale diventa il portavoce di coloro che criticano l’ideale ascetico di Girolamo. Elvidio pubblica un trattato nel quale cerca di dimostrare che Maria, pur avendo concepito virginalmente, non sarebbe rimasta tale dopo il suo matrimonio con Giuseppe, avendo avuto dal marito diversi figli. Lo scopo che con questo argomento Elvidio si prefigge è quello di dimostrare che la condizione matrimoniale non è per nulla inferiore a quella virginale, la quale è perciò inutilmente perseguita dagli asceti, in quanto viene ad essi a mancare quella condizione di predestinazione che fa di Maria la sola ed unica eletta in una circostanza del tutto speciale. Contro Elvidio, Girolamo scrive l’Adversus Helvidium de perpetua virginitate Mariae, in cui non solo rifiuta energicamente le allusioni sulla verginità di Maria, esempio di assoluta e irrefragabile purezza, ma dove, a spada tratta e in uno stile molto personale, prende le difese della verginità, da lui considerata una condizione privilegiata, perché espressione della ferma volontà di chi vi si vota di voler superare i condizionamenti imposti dal corpo e dalle passioni per perseguire l’ideale cristiano di purezza e santità; una cosa questa, secondo Girolamo, che non può certo essere favorita dall’assecondare le inclinazioni della carne, come invece può credere lo stolto e insolente Elvidio. Il fatto è però che Girolamo, in questa difesa della verginità, invece di limitarsi a sostenere la propria tesi e di attaccare quella dell’avversario, si spinge sul piano delle contumelie e si lascia andare a insulti, offese e villanie di ogni tipo, non solo cadendo nell’eccesso opposto di svalutare il matrimonio nei confronti della verginità, ma addirittura cedendo a maligne allusioni ad personam e riducendo la questione quasi a un fatto personale. Ad ogni modo, con le sue argomentazioni e il suo stile sarcastico, che è espressione del suo non certo docile temperamento, Girolamo schiaccia definitivamente Elvidio, di cui non si saprà più nulla.

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Cima da Conegliano (1459 - 1517) − San Girolamo nel deserto, 1495 - Pinacoteca di Brera, Milano.

Dopo la morte di Damaso, avvenuta l’11 dicembre 384, gli attacchi dei numerosi nemici che Girolamo si è procurato col suo temperamento polemico e focoso si scatenano pubblicamente, giungendo fino alle accuse più grossolane e malevole. In conseguenza di ciò lo stridonense si vede costretto a lasciare la città per tornare in volontario esilio in terra d’Oriente. Scrive perciò una lettera ad Asella (l’epistola 45) in cui spiega all’anziana signora i motivi che lo inducono a lasciare Roma, e nell’agosto del 385 si imbarca da Ostia col fratello Paoliniano, alcuni monaci e il prete Vincenzo. Molto presto, però, anche Paola, sua figlia Eustochio e altre dame lo raggiungono. Con molta probabilità i due gruppi si ritrovano a Salamina di Cipro, presso il vescovo Epifanio, da dove poi riprendono il viaggio per recarsi da Paolino ad Antiochia. Dopo un lungo pellegrinaggio ad loca sancta, secondo una consuetudine propria dell’epoca, che li porta a Sarepta, Tiro, Gerusalemme, Cesarea, Cana, Nazareth, Cafarnao ecc., Girolamo e Paola si spostano in Egitto, dove fanno visita al grande esegeta Didimo il Cieco, per poi dirigersi in Terrasanta, ma non senza aver prima incontrato alcuni anacoreti del deserto egiziano. Nel 386, infine, Girolamo e Paola decidono di stabilirsi a Bethlemme, in due monasteri gemelli costruiti a spese della ricca vedova romana, ai quali poi si aggiunge un ospizio per i pellegrini. Il monastero femminile sorse vicino alla basilica della Natività e ospitava una comunità numerosa, mentre quello maschile venne costruito in aperta campagna, con vista sulla Basilica e sulla tomba di Rachele. I due monasteri si trovavano però sottoposti alla giurisdizione del vescovo di Gerusalemme, Giovanni, un monaco colto e battagliero con cui Girolamo ebbe a che fare e col quale non mancò di venire in contrasto.

Nella quiete monastica, Girolamo può comunque dedicarsi alla sua opera di revisore e traduttore della Bibbia e alla stesura di opere agiografiche, insegnando grammatica ai giovani. La sua attività di studioso ha ispirato l’altro modello iconografico, quello dello scrittore ed esegeta, ritratto spesso nella cella del monastero in compagnia del fedelissimo leone, mentre su di lui discende ad ispirarlo la colomba dello Spirito Santo. A questo Girolamo si sono ispirati, fra gli altri, Antonello da Messina, in un dipinto conservato alla National Gallery di Londra, e Vittore Carpaccio, in un ciclo che si trova nella Scuola di San Giorgio degli Schiavoni a Venezia.

In questo ambiente monastico, che risponde ai suoi ideali di preghiera, di ascesi e di studio, Girolamo visse fino alla morte, avvenuta nel 419 o 420. Durante questi anni, poiché continua ad essere oggetto di dure critiche da parte dei suoi avversari, Girolamo è costretto a difendere gli ideali in cui crede e i suoi principi con l’attività di polemista, soprattutto contro gli eretici Gioviniano e Vigilanzio, e poi, più tardi, contro Pelagio. Ma un altro aspetto dell’attività di Girolamo in questi anni può essere colto nel gran numero di lettere che egli continua a inviare ai suoi corrispondenti: sono epistole in parte a carattere privato, ma moltissime anche di contenuto dottrinale, ed alcune così estese da essere definite liber dal loro stesso autore. La varietà degli argomenti, l’ampio respiro delle questioni trattate, la molteplicità dei sentimenti che emergono da queste lettere, fanno dell’epistolario geronimiano un’opera che può certamente competere con quella di un Cicerone.

Intorno al 392 gli giunge notizia della pubblicazione in Roma di un libello che ha suscitato una certa attenzione, il cui autore è un monaco di Milano di nome Gioviniano, istigatore di una campagna di opposizione contro il suo ideale monastico. Questo monaco era già stato contrastato dagli amici e dai sostenitori di Girolamo a Roma, i quali erano rimasti devoti alla causa dell’ascetismo a cui il maestro li aveva avvicinati dieci anni prima. Pammachio, il genero di Paola, aveva inoltre denunciato Gioviniano a papa Siricio, successore di Damaso, che pur non essendo favorevole a Girolamo, aveva dovuto convocare un sinodo a Roma per decidere sulla questione dei giovinianisti, mentre un altro sinodo era stato convocato a Milano da Ambrogio. Dunque, Gioviniano, benché fosse già stato scomunicato come eretico nel 390 insieme a otto suoi seguaci, continuava a diffondere la sua dottrina e ad avere sostenitori. Nel suo scritto – che, come quello di Elvidio, è andato perso − Gioviniano sosteneva quattro tesi fondamentali, di cui la prima era che la condizione essenziale per il cristiano doveva consistere nell’essere battezzato, per cui, sussistendo tale presupposto di adesione alla fede, non aveva importanza che chi volesse perseguire l’ideale della perfezione fosse sposato o monaco. La seconda tesi, presentata come una conseguenza della prima, era che, una volta che il cristiano fosse stato battezzato, sarebbe stato impossibile per lui ricadere sotto il dominio del demonio, in quanto persona di Cristo. Se perciò un cristiano battezzato si pente di un suo peccato, il peccato può essergli perdonato. La terza tesi era quella secondo cui il cristiano che si mortifica con i digiuni e le penitenze non è per niente superiore al cristiano che si serve moderatamente dei doni di Dio e che per essi rende grazie al creatore. Infine, l’ultima tesi era che nel giorno del giudizio non sarebbe stata fatta alcuna distinzione tra i cristiani, i quali avrebbero tutti ricevuto una uguale ricompensa.

Girolamo non tarda a replicare energicamente alle affermazioni di Gioviniano col suo Adversus Iovinianum, in cui comincia col chiamare l’eresiarca l’Epicuro dei Cristiani. Gioviniano, infatti, pur essendo stato espulso dal suo monastero di Milano, continuava a condurre vita monastica, in quanto riteneva che l’ideale di vita cristiano potesse essere praticato anche in modo molto meno rigoroso rispetto al modello proposto da Girolamo. Per Gioviniano, che giunse perfino a negare la verginità di Maria, e che per questo fu colpito dalla scomunica di papa Sisto, le mortificazioni del corpo e le rinunce non erano l’essenziale nella vita del perfetto cristiano, perché queste pratiche, come in genere le opere, dovevano avere un’importanza secondaria, essendo sufficienti alla salvezza il battesimo e la grazia divina. L’attacco di Girolamo contro tali argomenti fu così violento da mettere a disagio perfino coloro che erano meglio disposti verso di lui, e provocò delle conseguenze che molti suoi nemici si erano forse da tempo auspicati. A molti sembrò infatti che questa volta Girolamo avesse davvero passata la misura sia per l’eccessiva crudezza del linguaggio di cui si era servito nelle invettive, sia anche perché molte sue tesi erano portate su posizioni così radicali da risultare indifendibili, come l’aperta svalutazione del matrimonio a vantaggio della verginità, che nemmeno i suoi più stretti seguaci riuscirono completamente ad accettare. L’Adversus Iovinianum, forse la più riuscita delle opere polemiche di Girolamo, ha in sostanza le stesse caratteristiche della precedente filippica contro Elvidio: abbonda di attacchi ad personam, è intriso di satira sferzante e si fonda su una grande quantità di testimonianze bibliche che Girolamo porta a difesa dei suoi argomenti, i quali sono in definitiva sempre gli stessi, così come l’abusato paragone tra matrimonio e verginità, che Girolamo riprende più volte per difendere ad oltranza quest’ultima condizione. Su questo argomento si sofferma anzi a lungo, fino ad essere ossessivo, e con tutto il sostegno che gli può venire dagli scritti di Tertulliano, contro il quale pure non manca di scagliare qualche frecciata, con riferimento alla deviazione del cartaginese nello scisma montanista.

Girolamo è focoso ed impulsivo, e molti dei suoi nemici giocano su questo aspetto del suo carattere per farlo cadere in contraddizione o per esporlo ancora di più al giudizio e alle critiche del pubblico e gettarlo in pasto ai suoi antagonisti. E questa volta, critiche molto pesanti gli vengono mosse da un monaco da poco giunto a Roma che si oppone sia a lui che a Gioviniano, e che, come lui, predica con grande successo alle dame dell’alta aristocrazia. Nell’epistola 50, da cui si apprendono tali cose, Girolamo non fa il nome di questo personaggio, di cui solo parla col suo solito tono sarcastico, e che naturalmente non manca di coprire di ingiurie. Si ha però motivo di credere che si tratti di Pelagio, che è giunto dalla Britannia per abbracciare la vita monastica e che acquista a Roma una certa notorietà per l’impegno e l’entusiasmo con cui si dedica al rinnovamento morale dell’urbe. Con questo monaco, che più tardi riparerà in Africa per sottrarsi alle invasioni barbariche, Girolamo si scontrerà ancora negli ultimi anni della sua vita. Gli amici di Girolamo, messi davanti a certi argomenti delle critiche mosse dal bretone, rimangono come disarmati, perché l’Adversus Iovinianum, così eccessivo nei toni quanto debole nelle tesi, non li aiuta a sostenere il maestro contro questo suo nuovo ed abile avversario. Per evitare il dilagare delle critiche, il fedele Pammachio cerca perfino di ritirare dalla circolazione il maggior numero possibile di copie del trattato polemico di Girolamo contro Gioviniano, e prega l’amico di smussare le punte più aspre della polemica scrivendo una lettera da Betlemme in cui spieghi con maggiore chiarezza le sue posizioni e dimostri in modo inequivocabile la sostanziale ortodossia delle sue tesi. Un altro amico, Domnione, mette insieme una raccolta antologica di passi del testo di Girolamo tra quelli che più sono stati oggetto di critiche e che più hanno suscitato scalpore, e manda questa raccolta a Betlemme pregando il maestro di apportare le dovute correzioni dove è necessario e di spiegare in modo più adeguato i passi che lo compromettono. Sia a Pammachio che a Domnione, lo stridonense risponde con la sua solita insofferenza, facendo capire che ciò che ha scritto sta bene come sta, ribadendo l’ortodossia della sua dottrina e coprendo di ingiurie quel monaco che a Roma va sconsideratamente predicando contro di lui, ma di cui non fa il nome. A Pammachio scrive l’epistola 49, che, in verità, per il suo contenuto, Girolamo avrebbe invece dovuto indirizzare all’altro amico, se non per riconoscenza, almeno perché glielo aveva chiesto. Nella lettera ridiscute infatti uno a uno tutti i punti della sua dottrina per dimostrare che nessuno di essi si discosta dai principi della fede cristiana, e poi, senza spostare una sola virgola, ripropone gli stessi argomenti tali e quali come sono. A Domnione, invece, invia l’epistola 50, nella quale, lungi dall’esaminare i passi che l’amico, premurosamente e non senza fatica, ha raccolti tra quelli maggiormente incriminati perché siano da lui opportunamente presi in esame ed emendati, Girolamo si mette sarcasticamente a parlare del monaco che pretenderebbe di screditarlo agli occhi del pubblico romano.

Nello stesso periodo in cui si hanno questi contrasti, Girolamo ha occasione di tornare sull’ideale dell’ascesi con altri due personaggi di rilievo, Paolino di Bordeaux e la nobildonna romana Furia, ai quali, come testimoniano le epistole 53 e 54, si rivolge con toni completamente diversi, perché Girolamo sa anche essere premuroso e cordiale.

Nato a Bordeaux intorno al 353, Meropius Pontius Paulinus, conosciuto più tardi col nome di Paolino da Nola, è un nobile romano di Gallia che ha studiato retorica con Ausonio e che è stato senatore e poi consul suffectus della Campania nel 379. Nel 390, ricevuto il battesimo, Paolino rinuncia alle ricchezze e agli onori e decide di dedicarsi alla vita ascetica insieme alla moglie Terapia. Ordinato prete contro la sua volontà nel 394 a Barcellona, aveva maturato l’idea di trasferirsi a Nola, presso la tomba del patrono della città, S. Felice, e aveva quindi scritto a Girolamo. A lui Girolamo risponde con l’epistola 53, dove si congratula con l’amico, che peraltro non conosce personalmente, per la decisione presa, e dove ha occasione di raccontare in che modo, in epoche diverse, uomini famosi come un Pitagora, un Platone, un Archita, un Apollonio abbiano affrontato lunghi viaggi, raggiunto regioni remote, visitato popoli sconosciuti e attraversato vasti e perigliosi mari, solo per incontrare altri uomini che avevano conosciuto dai libri, allo scopo di progredire nelle loro conoscenze e di migliorarsi. La lettera ha un tono esortativo ed è significativa non solo per il modo in cui Girolamo cerca di avvicinare l’amico facendo leva sui suoi interessi di religioso e di letterato, ma anche perché l’uomo a cui si rivolge è un personaggio colto, di un certo rilievo, e un autorevole esempio di conversione al cristianesimo. Girolamo racconta perciò come anche tra i cristiani ci sia questa esigenza di apprendere dai grandi maestri e da altri che condividono la stessa fede, e porta l’esempio dell’apostolo Paolo, che pure essendo direttamente ispirato da Cristo, aveva cercato di essere istruito da Pietro, di sentire la verità viva delle scritture scaturire dalla viva voce di un altro uomo che aveva conosciuto Cristo. In questo modo, Girolamo pone in risalto che la ricerca della verità non deve solo avvenire attraverso lo studio degli scritti, perché questa verità di fede è una verità vivente, e in quanto tale deve anche essere appresa attraverso le testimonianze e i modi di sentirla di altri che la conoscono. Il racconto è suggestivo e pacato, ma Girolamo non riesce a convincere Paolino a raggiungerlo nel suo monastero a Betlemme, nonostante il chiaro invito con cui conclude la bellissima lettera. Paolino si stabilirà infatti nella città campana, dove sarà nominato vescovo nel 379 e dove morirà nel 431.

Furia, invece, è una nobildonna romana che è rimasta vedova da poco e che, avendo deciso di non passare a seconde nozze, ha scritto a Girolamo per essere consigliata. Girolamo le invia in risposta l’epistola 54, che intitola de viduitate servanda (sul mantenimento della condizione di vedovanza), dove, congratulandosi con la gentildonna per la sua saggia decisione di non passare a nuove nozze, la esorta a rimanere costante in essa, mettendola in guardia dai pericoli di un mondo decadente e in subbuglio, nel quale l’insidia più comune per una vedova benestante era quella di cadere vittima delle losche macchinazioni ordite dai tanti cacciatori di dote. La matrona è perciò esortata a non cedere alle tentazioni, a riflettere sulle conseguenze delle sue scelte e soprattutto a non prestare ascolto a quanti, facendosi dispensatori di consigli falsamente disinteressati, vorrebbero che si risposasse. È una lettera particolarmente notevole per la satira di costume, ma anche per le doti stilistiche di Girolamo.

Un’altra lettera interessante è però anche quella che Girolamo scrive a Leta nel 401, nella quale egli cerca di presentare in forma pedagogica le sue idee sull’ascesi, dimostrando come per lui sia particolarmente importante l’educazione religiosa dei bambini. Leta ha infatti avuto una bambina che, già dalle fasce, ha votato alla vita verginale. La lettera è l’epistola 107, nella quale Girolamo si rivolge alla nobildonna romana con paterno affetto, mostrando la massima premura per la piccola che è appena nata e preoccupandosi di come essa dovrà essere educata negli anni a venire. In questa lettera è notevole come, nel parlare della futura educazione dell’infante, Girolamo riesca a presentare le sue severe prescrizioni con una gentilezza disarmante, raggiungendo toni d’inusitata e toccante tenerezza. E così facendo Girolamo si spinge a descrivere alla donna perfino come potrà essere la piccola negli anni futuri se verranno seguiti i suoi consigli, prefigurandosi fin nei più piccoli particolari i sentimenti e i vezzosi atteggiamenti della bambina.

8.

Cima da Conegliano (1459 - 1517) − San Girolamo nel deserto, 1500-1505 – National Gallery of Art, Washington

A Betlemme Girolamo può anche dedicarsi all’ascesi e all’assistenza dei bisognosi, alternando, come egli stesso scrive in più occasioni, la cura dei poveri e dei pellegrini con le ore di studio che riesce a strappare al sonno. Qui, inoltre, prima in modo piuttosto pigro, ma poi via via con sempre maggiore fervore, riprende il lavoro sui testi biblici iniziato a Roma. La versione latina esistente dei Salmi[5] e degli altri libri del Nuovo Testamento, cioè la cosiddetta Vetus Latina, è però da Girolamo solo riveduta e più o meno profondamente emendata sulla base degli originali in lingua ebraica e greca, mentre nessuna modifica viene apportata ai libri dei Maccabei, alla Sapienza e a Baruc, i quali sono lasciati così come sono. Tuttavia, lungi dal destare ammirazione per lo scrupoloso lavoro di filologo e per la capacità letteraria mostrata, la revisione della Vetus Latina suscita invece numerose critiche, come attesta l’epistola 27 che Girolamo invia a Roma alla sua seguace Marcella:

«… Mi è stato riferito che certi omiciattoli si danno improvvisamente una gran pena a calunniarmi per il fatto che, violando l’autorità degli antichi e l’opinione del mondo intero, ho cercato di introdurre alcune correzioni nei Vangeli. A buon diritto potrei disprezzare costoro, perché il canto della lira è inutile alla presenza di un asino… Se costoro non provano diletto per l’onda purissima dell’originale greco, continuino pure a bere ai loro ruscelli fangosi e rifiutino pure, quando leggono le Scritture, di dedicare ad esse quell’attenzione che pure è necessaria a distinguere il sapore della cacciagione da quello delle ostriche; siano pure, insomma, degli ignoranti in questa materia… Ma perché Orazio Flacco non si beffi di noi, torniamo ai nostri asini a due zampe e rintroniamo le loro orecchie con le trombe piuttosto che con la cetra… ».

In un primo tempo, anteriore al 390, Girolamo si dedica alla traduzione in latino del De Spiritu Sancto di Didimo di Alessandria, probabilmente già iniziata a Roma, a cui fanno seguito le Omelie di Origene al Vangelo di Luca. Poi, per l’insistenza di Paola ed Eustochio, si accinge a commentare i testi sacri, contrapponendosi agli scrittori latini che lo hanno preceduto, come per esempio Mario Vittorino, che essendosi convertito tardi al cristianesimo, Girolamo ritiene non adeguatamente competente sotto l’aspetto teologico. Girolamo comincia dunque con le Epistole di S. Paolo: prima l’Epistola a Filemone, poi l’Epistola ai Galati, poi quella agli Efesini e infine l’Epistola a Tito: il tutto nel 387, in pochi mesi di intensissimo e disordinato lavoro. Questo lavoro rappresenta per Girolamo anche l’occasione per rispondere al neoplatonico Porfirio, grande nemico dei cristiani, che egli chiama sceleratus per avere più volte e in più modi arrecato offesa a Pietro e Paolo in merito alla loro polemica intorno alla questione dei cristiani giudaizzanti. Subito dopo Girolamo inizia il commento all’Ecclesiate, che egli può intraprendere grazie alla sua conoscenza dell’ebraico, lingua che continua ad approfondire anche a Betlemme. Infatti, giacché desidera attenersi il più possibile alla Hebraica veritas, Girolamo traduce il testo direttamente dall’ebraico, confrontando poi il risultato del suo lavoro sia con la preesistente versione latina eseguita sul testo greco dei Settanta, sia con le altre versioni greche, assai posteriori, di Aquila, Teodozione e Simmaco, risalenti al II secolo d.C. Questo impegnativo lavoro di traduzione dell’Ecclesiaste dall’originale ebraico è accompagnato dalla stesura di alcuni manuali di carattere linguistico che Girolamo prepara per se stesso al fine di chiarire alcune particolarità lessicali dell’ebraico. Vengono fuori così il Liber interpretationis Hebraicorum nominum, in cui sono studiate le etimologie di una serie di nomi ebraici, il Liber locorum, derivato dall’opera di Eusebio di Cesarea, e le Hebraicae Quaestiones in Genesim, in cui, servendosi anche dell’erudizione dei rabbini che egli conosce di persona, affronta problemi linguistici, geografici e storici relativi alle Scritture.

9.

Antonello da Messina (1429 - 1479) – San Girolamo nello studio, 1474-1475 – National Gallery - Londra.

Dopo alcune altre composizioni di minor rilievo, Girolamo comincia una nuova revisione dell’intero testo biblico sulla base delle opere di Origene, che sono conservate in un grande archivio nella non lontana Cesarea. Dopo la morte di Origene, che era stato vescovo di Cesarea, la sua biblioteca era stata infatti custodita prima da Pamfilo e poi dal vescovo Eusebio. Tra le maggiori opere di Origene (che noi conosciamo solo parzialmente) si trovano i cosiddetti Hexapla, cioè il testo biblico disposto su sei colonne parallele, delle quali una riporta l’originale ebraico in lettere ebraiche, un’altra riporta l’originale ebraico in greco, un’altra ancora la traduzione greca dei Settanta e le altre tre colonne le versioni di Aquila, Teodozione e Simmaco, il tutto corredato da note e giudizi critici. Confrontando il testo ebraico e il testo greco, Girolamo esegue un’altra revisione della traduzione latina dei Salmi, la quale, una volta terminata, circolerà soprattutto in Gallia e sarà conosciuta con il nome di Salterio gallicano. Questa seconda revisione dei Salmi diverrà più tardi il Salterio della Vulgata e del Breviario Romano, imponendosi anche su una terza revisione che Girolamo eseguirà pochi anni più tardi lavorando direttamente ed esclusivamente sul testo ebraico. Successivamente Girolamo esegue, sempre sugli originali ebraici, il testo critico del Libro di Giobbe, dei due libri delle Cronache e dei libri attribuiti a Salomone (Proverbi, Ecclesiaste, Cantico dei Cantici). Ma il lavoro di Girolamo non si ferma qui, perché intorno al 390 egli riprende da capo l’intera opera con l’intento di attenersi solo al testo ebraico: un’impresa gigantesca, che non sarà portata a termine prima del 406, ma che una volta compiuta si imporrà poco per volta, tra il VI e il IX secolo, in tutto l’occidente latino, costituendo un monumento senza pari nella storia d’Europa, della sua lingua e della sua letteratura.

Nel 406 Girolamo redige un altro scritto polemico contro un prete che nella Gallia meridionale andava criticando il culto delle reliquie dei martiri e che aveva da ridire sull’ideale ascetico del digiuno, dell’isolamento monastico e della verginità. Questo prete, che Girolamo aveva conosciuto in Palestina e che andava anche diffondendo maligne chiacchiere su di lui, screditandolo agli occhi del pubblico soprattutto per il suo passato entusiasmo per Origene, è Vigilanzio. Contro questi Girolamo scrive L’Adversus Vigilantium, che in quanto a sarcasmo non ha nulla da invidiare al suo precedente scritto polemico contro il monaco Gioviniano. Lo stridonense ha ormai 75 anni quando scrive il suo libello contro Vigilanzio, ma nonostante il peso degli anni, la grinta nel difendere le sue idee non gli viene meno. Così, questo vegliardo dalla bianca barba, da cui ci si aspetterebbero parole tremanti e appena sussurrate, si scaglia con tutta la sua collera e il suo incredibile impeto contro questo nuovo ed imprudente nemico delle sue convinzioni. Lo stridonense contrasta infatti Vigilanzio con parole tonati e ricorrendo ai soliti metodi dello scherno e dell’offesa, la più innocente delle quali è rappresentata dal gioco di parole cui dà adito il nome Vigilantius che, significando «colui che è desto», mal si adatta, dichiara acremente Girolamo, alle qualità intellettive del suo possessore, che dovrebbe semmai chiamarsi «Dormitantius».

10.

Vittore Carpaccio (1465 - 1525) – San Girolamo e il leone nel convento, 1502 – Scuola di S. Giorgio degli Schiavoni, Venezia.

Il capitolo più penoso è però rappresentato dalla controversia su Origene, scrittore a cui, dopo i primi entusiasmi, Girolamo attribuisce ogni sorta di errori fino a considerarlo un eretico pericolosissimo. Le sue posizioni, molto radicali e intransigenti, lo rendono però ingiusto ed eccessivo anche nei confronti dei suoi amici più cari, come testimonia la rottura con Tirannio Rufino, che Girolamo accusa di origenismo e non manca di screditare anche dopo la morte. Il fatto è che Girolamo si presta, con poca avvedutezza, ad essere la pedina di un gioco condotto da persone molto più potenti e astute di lui, come il vescovo di Alessandria, Teofilo, ambiguo e prepotente, Epifanio, vescovo di Salamina di Cipro, e Giovanni, vescovo di Gerusalemme. Allorquando, verso il 393, scoppia la controversia intorno agli errori dottrinali di Origene, Epifanio, che critica Teofilo, polemizza violentemente con Giovanni di Gerusalemme, che invece sostiene l’alessandrino. Di conseguenza, Giovanni manda a chiedere a Girolamo, tramite un suo inviato, una professione di fede che condanni esplicitamente tutti gli errori di Origene. Girolamo non trova difficoltà a far questo, perché ormai ha ripudiato Origene, e concede la professione di fede richiestagli, ma si lascia poi invischiare nelle polemiche tra Epifanio e Giovanni, che raggiungono toni esasperati e lo portano a scagliarsi contro l’amico Rufino. Questi, diversamente dallo stridonense, si era rifiutato di accusare colui che negli anni precedenti era stato il loro comune maestro, cosicché non aveva rinnegato del tutto Origene, e per rispondere agli aspri attacchi dell’amico, aveva ricordato a Girolamo come egli stesso avesse largamente attinto da Origene per le sue opere esegetiche. Da questo momento Girolamo non perdonerà più a Rufino di aver messo per iscritto cose come queste che avevano riguardato il suo passato di studio e il suo primo entusiasmo per Origene, e mostra verso l’amico un risentimento inaudito, che è certamente l’aspetto peggiore del suo spigoloso carattere. Per questo motivo Girolamo è fatto oggetto di numerose critiche, di cui sono un esempio abbastanza significativo quelle mossegli dal Palladio, un autore tra i più informati della storia del monachesimo e della vita dei santi, che ebbe più volte a ridire dei rapporti di Girolamo con Paola (Historia Lausiaca, 36, 6-7; 41, 2):

«Un presbitero, Gerolamo, abitava in quei luoghi; un uomo che spiccava per la sua valentia nelle lettere latine e per naturale talento, ma nutriva in sé una tale gelosia che ne veniva oscurata la sua bravura letteraria. Posidonio, dopo aver trascorso con lui vari giorni, mi disse all’orecchio: “La nobile Paola, che si prende cura di lui, morirà prima, e così si libererà, credo, della sua gelosia… A causa di quest’uomo non sarà possibile che un santo abiti in questi luoghi; anzi, la sua invidia si spingerà sino al proprio fratello”. In questi termini, appunto, si svolsero le cose».

E ancora:

«Fra di esse c’era anche Paola, romana, madre di Tossozio, donna nobilissima per vita spirituale. A lei fu di ostacolo un certo Gerolamo, proveniente dalla Dalmazia. Paola era in grado di volare più in alto di tutte le sue eccezionali doti, ma quell’uomo la ostacolò con la sua gelosia, dopo averla attirata alla meta che si proponeva… ».

a queste critiche Girolamo risponde semplicemente bollando Palladio di servilis nequitia, cioè di ‘servile nullità’ (Dial. adv. Pelag., prol. 497 A).

Fra coloro che hanno la malaugurata idea di contrastare lo stridonense vi è anche Agostino, il quale non è convinto dell’opportunità di ritradurre la Bibbia rifacendosi al testo ebraico, fonte – secondo lui – di confusione tra le Chiese. Per questo disaccordo, anche Agostino, perciò, subisce, nel corso di una lunga corrispondenza, gli aspri rimbrotti e le allusioni malevole di Girolamo. È vero che quando Agostino inizia a scrivere a Girolamo, intorno al 395, quest’ultimo è già maturo e al culmine della fama, mentre Agostino non è che uno sconosciuto presbitero dell’Africa che, agli occhi di Girolamo, si azzarda a porre questioni inconcludenti; ma questo non è per Agostino un buon motivo per arrendersi. Ci vorrà perciò tutta la pazienza di un santo come Agostino perché questi rapporti, così male iniziati, non si concludano nel peggiore dei modi che ci si sarebbe potuti aspettare da un uomo così testardo e inavvicinabile come Girolamo. I rapporti tra Girolamo e Agostino corrono infatti davvero il rischio di interrompersi, e ciò avviene quando Girolamo scrive ad Agostino l’epistola 105, a cui però l’africano pensa bene di non dare seguito. È quindi solo grazie alla grande abilità di Agostino che Girolamo, più tardi, ormai vicino alla morte, può scrivere lettere piene d’affetto e di amicizia al collega più giovane, ritenuto dallo stridonense sicuro baluardo contro ogni eresia. E questo per non parlare di Ambrogio di Milano, nei cui confronti Girolamo si esprime sempre con un disprezzo e una animosità difficili da comprendere e da giustificare. Le critiche riguardano in particolare il De Spiritu Sancto di Ambrogio, che secondo Girolamo non è che un plagio dell’opera di Didimo il Cieco, e la Explanatio Evangelii secundum Lucam, considerata solo un’opera di compilazione e per giunta poco intelligente. Ma l’astio di Girolamo nei confronti di Ambrogio ha forse un motivo meno evidente, che con molta probabilità consiste nel fatto che egli ritiene Ambrogio responsabile della condanna che lo ha costretto ad abbandonare Roma e a ritirarsi in Terrasanta. Una cosa questa che Girolamo non perdonò a nessuno dei vescovi di Roma.

11.

Vittore Carpaccio (1465 - 1525) – San Girolamo penitente, Polittico di Grumello, 1500 ca., chiesa di Santa Maria Assunta – Zogno, fraz. di Grumello de' Zanchi, Bergamo.

Nel 395 Girolamo scrive una lettera al genero di Paola, Pammachio, uno dei suoi più fedeli amici rimasti a Roma, per chiarire alcuni aspetti teorici del suo modo di tradurre le Scritture e per esporre quelli che egli ritiene essere i criteri generali da applicarsi ad ogni tipo di traduzione. Pammachio, che era stato senatore, rimasto vedovo dopo dodici anni di matrimonio con Paolina, aveva distribuito le sue sostanze ai poveri, aveva indossato l’abito monastico e si era dato alla vita ascetica, fondando un grande ospizio presso le foci del Tevere. I contatti tra Girolamo e Pammachio sono frequenti, soprattutto perché lo stridonense ritiene l’amico all’altezza di comprendere il suo pensiero e le sue posizioni nelle controversie, tanto che Girolamo dedica a lui alcuni importanti trattati. L’epistola che Girolamo questa volta invia a Pammachio è la n. 57, motivata da alcune vicende che avevano caratterizzato la controversia con l’amico Rufino e i sostenitori dell’origenismo. Era infatti accaduto che Eusebio di Cremona aveva desiderato conoscere il contenuto della lettera che Epifanio di Salamina aveva tempo prima inviato a Giovanni di Gerusalemme, uno dei più convinti sostenitori dell’ortodossia di Origene. Questa lettera costituiva infatti un documento di grande importanza per gli antiorigenisti, perché in essa Epifanio aveva accusato Giovanni di eresia sulla base di schiaccianti argomentazioni. Si rendeva perciò necessario che un simile documento, scritto in greco da uno tra i più autorevoli antiorigenisti, fosse opportunamente diffuso affinché tutti potessero sapere come gli errori di Origene fossero stati confutati. Ora, poiché il greco non era più conosciuto in Italia, Eusebio aveva pregato Girolamo di tradurre in latino la lettera di Epifanio, in modo da poterla far circolare a Roma e in tutta la penisola. Girolamo aveva accolto la richiesta dell’amico e poco dopo gli aveva inviato l’epistola 51, in cui era contenuta la traduzione in latino dell’epistola di Epifanio a Giovanni. La traduzione, una volta pubblicata, aveva però suscitato le proteste degli origenisti, i quali ora accusavano Girolamo di aver commesso volutamente degli errori di traduzione allo scopo di mettere in cattiva luce Giovanni. Rufino, che non aveva rinnegato completamente Origene e che era fortemente contrastato da Girolamo, si era schierato dalla parte degli origenisti per ciò che avevano da dire sulla traduzione di Girolamo della lettera di Epifanio. Intanto, dell’originale greco di Epifanio non si era saputo più niente, mentre negli ultimi mesi del 395 la lettera di Girolamo recante la traduzione latina della lettera di Epifanio, era stata misteriosamente rubata ad Eusebio per finire poco dopo nelle mani di Rufino e di Giovanni di Gerusalemme. Di conseguenza, Girolamo, essendosi venuto a trovare in una situazione piuttosto imbarazzante, si era visto costretto a spiegare all’amico Pammachio in che modo aveva tradotto la lettera di Epifanio. Pertanto, nell’epistola 57, Girolamo sostiene che la traduzione inviata ad Eusebio di Cremona è corretta, in quanto il testo latino risponde in tutto e per tutto agli usuali criteri della traduzione. Le differenze che si riscontrano tra l’originale greco e la traduzione latina, dice Girolamo, non sono da prendere come volontari errori di traduzione, ma come il risultato di una traduzione a senso. È infatti necessario, spiega Girolamo, che non si traduca alla lettera, parola per parola, un testo, ma in modo da rendere il significato complessivo di ogni passo. In difesa del principio fondato sulla resa ad sensum di ogni traduzione, Girolamo dimostra i motivi per cui ritiene difettosa, e quindi non applicabile nemmeno ai testi sacri, la regola del verbum ex verbo esprimere, cioè del tradurre un testo parola per parola. D’altro canto, non è questa l’unica volta in cui Girolamo prende le difese del suo metodo; anche altre volte si è dedicato a questo argomento, come testimonia l’epistola 106, che egli invia tra il 403 e il 410 a Sunnia e Fretela, due chierici goti che risiedono a Costantinopoli, ai quali illustra l’applicazione del suo criterio nella interpretatio dei sacri testi, spiegando come una revisione letteraria debba arrivare solo fino al punto da non guastare il senso dell’originale. Tuttavia, mentre in alcune lettere Girolamo sostiene che per ottenere risultati attendibili è necessario rispettare il senso dello scritto superando le restrizioni imposte dalle singole parole, in altre dichiara che è a volte opportuno seguire un criterio meno rigido. Del resto Girolamo aveva già molte volte dimostrato come non sempre si fosse attenuto ad un unico criterio nelle traduzioni, perché spesso, per soddisfare le richieste dei suoi committenti o delle sue affezionate seguaci, aveva dovuto adattare le sue traduzioni alle loro particolari esigenze. Quando infatti scriveva a Marcella o a Edìbia o ad Algesia per spiegare loro qualche passo biblico su cui gli venivano chieste delucidazioni, sapendo che esse erano interessate soprattutto al significato letterale dei testi, egli veniva loro incontro con un’esegesi più asciutta ed essenziale, mentre quando si rivolgeva a Paola, a Eustochio, a Fabiola e a Principia, che invece si trovavano più a loro agio con un’esegesi di tipo allegorico, egli offriva loro una traduzione più curata, come appunto la conversio ad sensum gli consentiva di fare.

12.

Domenico Zampieri, detto il Domenichino (Bologna, 21 ottobre 1581 – Napoli, 6 aprile 1641) – L'ultima comunione di San Girolamo, 1614 – Pinacoteca Vaticana – Città del Vaticano.

Gli ultimi anni della vita di Girolamo sono amareggiati da preoccupazioni finanziarie, perché Paola esaurisce tutti i suoi averi. Dopo la morte della santa, avvenuta nel 404, Girolamo scrive in suo onore il toccante Epitaphium sanctae Paulae (epistola 108) che, come ha scritto Christine Mohrmann, «è la storia di un’anima nella forma epidittica dell’elogio funebre».

A questa grave perdita si aggiunge la notizia della presa di Roma da parte dei Goti e delle sofferenze subite dagli amici durante il sacco di Alarico del 410.

L’ultima battaglia di Girolamo è la polemica contro Pelagio e i suoi seguaci, che gli vale la simpatia di Sant’Agostino, il quale riconosce nello scontroso Girolamo un animo sensibile e un uomo di profondissimi sentimenti. Nella conclusione dello scritto Dialogus adversus Pelagianos sub persona Attici et Critobuli haeretici libri tres Girolamo infatti scrive: «Penso di sospendere quest’opera polemica. Infatti o dovrei dire in maniera superflua le medesime cose dette da Agostino o, se anche volessi dire qualcosa di nuovo, sono certo che ne sono state esposte di migliori da quel nobilissimo ingegno». Ma di questo i pelagiani non tarderanno a vendicarsi. Nel 416, infatti, una banda di teppisti assale il monastero di Girolamo incendiandone una parte, e a nulla valgono contro questa azione, le vibranti proteste mosse da papa Innocenzo a Giovanni di Gerusalemme, che nel frattempo è morto, né quelle dello stesso Agostino. A questo dispiacere si aggiunge poi quello per la morte della diletta Eustochio, avvenuta nel 418. Girolamo muore un anno più tardi, il 30 settembre dell’anno 419. Ma ormai sulle montagne d’Italia insegne sconosciute, con i simboli della ruota e del serpente, avevano sostituito la croce, e il mondo intero stava crollando sotto le ondate delle invasioni barbariche. In molte lettere e nei proemi di alcune sue opere, Girolamo aveva già accennato a queste incursioni e invasioni di barbari, e alle morti e alle devastazioni che ovunque esse stavano portando. Già prima del sacco di Roma, la frontiera occidentale del Reno era stata in più punti violata da orde immense di popoli selvaggi e bellicosi, i quali, lasciate le loro inestricabili foreste e abbandonata la caccia al cinghiale a all’uro, con i loro rozzi idoli di legno, divinità della guerra e del tuono, già ai primi del 406 si erano riversati in armi, al suono di stridenti corni, nella Germania romana e nella Gallia, dandosi al saccheggio e mettendo a ferro e a fuoco palazzi, templi, biblioteche e città. Raggiunto dalle notizie di quanto stava accadendo, Girolamo si era reso dolorosamente conto che la civiltà antica, ai cui valori più alti egli era sempre rimasto fedele, stava esalando l’ultimo suo respiro sotto i colpi impietosi della spada, e che un’altra epoca sarebbe succeduta alla sua.

13.

Lionello Spada (Bologna, 1576 – Parma, 1622) – San Girolamo scrivente, 1613 – Galleria Nazionale d'Arte Antica, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini – Roma.


[1] Illirico – così i Romani chiamarono la provincia da loro istituita nel territorio degli Illiri, confinante a N con la Pannonia, a S con la Macedonia e il fiume Drilon, a O con l’Adriatico (dal Drilon all’Istria) e a E con la Mesia. Comprendeva perciò parte dell’Albania e del Montenegro, quasi tutta la Bosnia e la Croazia, la parte orientale dell’Istria e quella occidentale della Serbia. Questa provincia, istituita al tempo di Augusto, fu dapprima provincia senatoria, poi, dall’11 a.C., provincia imperiale. Nel riordinamento dell’impero fatto da Diocleziano, la Dalmazia, che già costituiva una delle ripartizioni amministrative dell’Illirico, fu divisa in due province, Dalmatia e Prevalitana. La Dalmatia, favorita da Diocleziano (che era dalmata), ebbe come capoluogo Salona, che divenne una città di grande importanza e splendore. Nei suoi pressi si trovava il palazzo imperiale (il cosiddetto palatium) da cui prende nome l’odierna Spalato. Da Diocleziano in poi vennero dall’Illirico eccellenti truppe e ottimi generali, molti dei quali divennero imperatori.

[2] Il Concilio di Trento, ovvero il XIX concilio ecumenico della Chiesa cattolica, fu convocato da papa Paolo III nel 1542 per discutere della Riforma protestante e dei dogmi della Chiesa. Esso si aprì tuttavia solo il 13 dicembre 1545. I lavori si svolsero a Trento e durarono, sia pure con brevi interruzioni, 18 anni, concludendosi nel dicembre del 1563. Il concilio si articolò in tre sessioni e vide succedersi tre pontefici: Giulio III successe a Paolo III e Pio IV successe a Giulio III. I decreti conciliari ratificati da Pio IV il 26 gennaio 1564 sono stati alla base della dottrina di fede e della pratica della Chiesa cattolica fino alla metà del XX secolo, cioè fino a quando su questo ordinamento non si è innestato quello stabilito dal concilio Vaticano II (1962-1965), che riflette l’influenza delle decisioni tridentine sul cattolicesimo moderno. Nel corso della prima sessione si affrontarono diverse questioni disciplinari, come quella dell’obbligo dei vescovi di risiedere nelle loro diocesi, e fu stabilito che la Scrittura fosse interpretata secondo la tradizione dei padri della Chiesa, per cui venne adottato come testo ufficiale la versione latina della Bibbia di S. Girolamo, detta Volgata. Nella seconda sessione il concilio si soffermò sui sacramenti e nella terza sulla professione di fede tridentina e sul ruolo del papato.

[3] Didimo di Alessandria – (detto ό τυφλός “il cieco”). Scrittore ecclesiastico (Alessandria 312 c. – ivi 395-99). Nonostante la cecità che lo colpì da bambino, giunse alla direzione del celebre Didaskaleion di Alessandria, ove ebbe come allievo anche Girolamo.

[4] Tebaide – regione storico-geografica dell’Alto Egitto con capitale Tebe. La zona desertica della Tebaide fu nota come centro di vita anacoretica fin dal sec. III per opera di S. Paolo di Tebe e soprattutto di S. Antonio abate. Agli inizi del sec. IV, S. Pacomio fondò a Tabennisi uno stabilimento per eremiti che conducevano vita in comune. Il sistema cenobitico si diffuse presto in tutto l’Egitto.

[5] La revisione del testo dei Salmi sulla base della traduzione greca dei Settanta costituisce il cosiddetto Salterio Romano, che è il testo dei Salmi che è stato originariamente impiegato a Roma e in Italia, ma che dal XVI secolo in poi è stato usato solo nella Basilica di S. Pietro. Si ritiene attualmente che il Salterio Romano non sia la versione rivista da Girolamo, che sarebbe andata perduta, bensì il testo dal quale egli avrebbe eseguito il suo lavoro di correzione.

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OPERE DI SAN GIROLAMO

La vasta produzione letteraria di Girolamo è raccolta nella Patrologia Latina del Migne (voll. 22-30). L’elenco delle opere in latino dello scrittore dalmata è riportato di seguito secondo l’ordine alfabetico dei titoli.

  • Ad Desiderium
  • Adversus Jovinianum Libri Duo
  • Apologia Adversus Libros Rufini
  • Breviarium In Psalmos
  • Canones Poenitentiales [Incertus]
  • Chronicon
  • Chronicon. Arnaldi Pontaci Vazatensis Episcopi Apparatus Et Notae
  • Commentarii In Librum Job
  • Commentariorum In Abacuc Prophetam Libri Duo
  • Commentariorum In Abdiam Prophetam Liber Unus
  • Commentariorum In Aggeum Prophetam Liber Unus
  • Commentariorum In Amos Prophetam Libri Tres
  • Commentariorum In Danielem Prophetam Liber Unus
  • Commentariorum In Epistolam Beati Pauli Ad Ephesios Libri Tres
  • Commentariorum In Epistolam Beati Pauli Ad Galatas Libri Tres
  • Commentariorum In Epistolam Beati Pauli Ad Philemonem Liber Unus
  • Commentariorum In Epistolam Beati Pauli Ad Titum Liber Unus
  • Commentariorum In Evangelium Matthaei Libri Quattuor
  • Commentariorum In Ezechielem Prophetam Libri Quatuordecim
  • Commentariorum In Isaim Prophetam Libri Duodeviginti
  • Commentariorum In Jeremiam Prophetam Libri Sex
  • Commentariorum In Joelem Prophetam Liber Unus
  • Commentariorum In Jonam Prophetam Liber Unus
  • Commentariorum In Malachiam Prophetam Liber Unus
  • Commentariorum In Micheam Prophetam Libri Duo
  • Commentariorum In Naum Prophetam Liber Unus
  • Commentariorum In Osee Prophetam Libri Tres
  • Commentariorum In Sophoniam Prophetam Liber Unus
  • Commentariorum In Zachariam Prophetam Libri Duo
  • Commentarius In Ecclesiasten
  • Commentarius In Epistolas Sancti Pauli [Incertus]
  • Commentarius In Evangelium Secundum Marcum [Incertus]
  • Contra Joannem Hierosolytitanum Ad Pammachium Liber Unus
  • Contra Vigilantium Liber Unus
  • De Virginitate Beatae Mariae, noto anche come Adversus Helvidium
  • De Viris Illustribus Liber Ad Dwxtrum
  • De Vitis Apostolorum
  • Dialogus Adversus Luciferianos
  • Dialogus Adversus Pelagianos
  • Vulgata:
    • Divina Bibliotheca. Praefatio Sancti Hieronimi In Pemtateuchum
    • Divina Bibliotheca 01. Liber Bresith Qui Dicitur Genesis
    • Divina Bibliotheca 02. Liber Elle Smoth Qui Dicitur Exodus
    • Divina Bibliotheca 03. Liber Vajecra Qui Dicitur Leviticus
    • Divina Bibliotheca 04. Liber Vajedabber Qui Dicitur Numeri
    • Divina Bibliotheca 05. Liber Elle Addabarim Qui Dicitur Deuteronomium
    • Divina Bibliotheca 06. Liber Josue Ben Nun
    • Divina Bibliotheca 07. Liber Sophtim Qui Dicitur Judicum
    • Divina Bibliotheca 08. Liber Ruth
    • Divina Bibliotheca 09. Libri Duo Samuelis Vel Liber I Malachiam
    • Divina Bibliotheca 10. Libro Duo Malachim
    • Divina Bibliotheca 11. Liber Isaiae Prophetae
    • Divina Bibliotheca 12. Liber Jeremiae Prophetae
    • Divina Bibliotheca 13. Liber Cinoth Seu Lamentationes Jeremiae Prophetae
    • Divina Bibliotheca 14. Liber Ezechielis Prophetae
    • Divina Bibliotheca 15. Libri XII Prophetarum
    • Divina Bibliotheca 16. Liber Job
    • Divina Bibliotheca 17. Liber Pslamorum
    • Divina Bibliotheca 18. Liber Masloth Qui Dicitur Liber Proverbiorum
    • Divina Bibliotheca 19. Liber Coeleth Qui Dicitur Liber Ecclesiastes
    • Divina Bibliotheca 20. Liber Sor Assirim Qui Dicitur Canticum Canticorum
    • Divina Bibliotheca 21. Liber Danielis Prophetae
    • Divina Bibliotheca 22. Liber Dabre Jamin Qui Dicitur Paralipomenion
    • Divina Bibliotheca 23. Liber Ezrae
    • Divina Bibliotheca 24. Liber Ester
    • Divina Bibliotheca 25 Liber Tobiae
    • Divina Bibliotheca 26 Liber Judith
    • Divina Bibliotheca 27 Liber Job
    • Divina Bibliotheca 28 Liber Psalmorum Iuxta Septuaginta Emendatus
    • Divina Bibliotheca 29 Liber Sapientiae
    • Divina Bibliotheca 30 Liber Eclesiastici
    • Divina Bibliotheca 31 Libri Duo Machabeorum
    • Divina Bibliotheca 32 Evamgelium Secundum Matthaeum
    • Divina Bibliotheca 33 Evangelium Secundum Marcum
    • Divina Bibliotheca 34 Evangelium Secundum Lucam
    • Divina Bibliotheca 35 Evangelium Secundum Joannem
    • Divina Bibliotheca 36 Liber Actuum Apostolorum
    • Divina Bibliotheca 37 Epistola Beati Pauli Ad Romanos
    • Divina Bibliotheca 38 Epistola Beati Pauli Ad Corinthos Prima
    • Divina Bibliotheca 39 Epistola Beati Pauli Ad Corinthos Secunda
    • Divina Bibliotheca 40 Epistola Beati Pauli Ad Galatas
    • Divina Bibliotheca 41 Epistola Beati Pauli Ad Ephesios
    • Divina Bibliotheca 42 Epistola Beati Pauli Ad Philippenses
    • Divina Bibliotheca 43 Epistola Beati Pauli Ad Colossenses
    • Divina Bibliotheca 44 Epistola Beati Pauli Ad Thessalonicenses Prima
    • Divina Bibliotheca 45 Epistola Beati Pauli Ad Thessalonicenses Secunda
    • Divina Bibliotheca 46 Epistola Beati Pauli Ad Timotheum Prima
    • Divina Bibliotheca 47 Epistola Beati Pauli Ad Timotheum Secundam
    • Divina Bibliotheca 48 Epistola Beati Pauli Ad Titum
    • Divina Bibliotheca 49 Epistola Beati Pauli Ad Philemonem
    • Divina Bibliotheca 50 Epistola Beati Pauli Ad Hebraeos
    • Divina Bibliotheca 51 Epistola Beati Jacobi Catholica
    • Divina Bibliotheca 52 Beati Petri Epistola Prima
    • Divina Bibliotheca 53 Beati Petri Epistola Secunda
    • Divina Bibliotheca 54 Beati Joannis Epistola Prima
    • Divina Bibliotheca 55 Beati Joannis Epistola Secunda
    • Divina Bibliotheca 56 Beati Joannis Epistola Tertiam
    • Divina Bibliotheca 57 Beati Judae Epistola Catholica
    • Divina Bibliotheca 58 Beati Joannis Apocalypsis
    • Divina Bibliotheca 99 Codicum Variantes Lectiones
  • Epistola Ad Constantinum [Incertus]
  • Epistolae
  • Epistolae Et Verba Mystica
  • Epistolae Secundum Ordinem Temporum Distributae
  • Excerpta De Aliquot Palestinae Locis
  • Expositio Quatuor Evangeliorum [Incertus]
  • Homilia Ad Monachos
  • Homiliae XIV In Ezechielem
  • Homiliae XIV In Jeremiam
  • In Lamentationes Jeremiae
  • In Seq Libros Adversus Jovinianum Admonitio
  • Interpretatio Chronicae Eusebii Pamphili
  • Interpretatio Chronicae Eusebii Pamphili. Index
  • Interpretatio Homiliarum Duarum Origenis In Canticum Canticorum
  • Interpretatio Libri Dydimi De Spiritu Sancto
  • Liber Comitis [Incertus]
  • Liber De Expositione Psalmorum
  • Liber De Nominibus Hebraicis
  • Liber De Situ Et Nominibus Locorum Hebraicorum
  • Martyrologium Vetustissimum Hieronymi Nomine Insignitum
  • Ordo Epistolarum Cum Antiquis Editionibus Et Benedectina Comparatus
  • Regula Monachorum Per Lupum De Olmeto Collecta
  • Regula Monachorum [Altera Editio]
  • Selecta Veterum ScriptorumTestimonia De Hieronumianis Versionibus Latinis Scripturarum
  • Translatio Homiliarum Novem In Visiones Isaiae Origenis Adamantii
  • Translatio Homiliarum XXXIX Origenis In Evangelium Lucae
  • Translatio Latina Regulae Sancti Pachomii
  • Vita Operaque. De Magnificantiis Beati Hieronymi [Augustinus Hipponensis]
  • Vita Operaque. De Miraculis Hieronymi [Cyrillus Episcopus Jerosolymitanus]
  • Vita Operaque. De Morte Hieronymi Ad Damasum [Eusebius]
  • Vita Operaque [Cardinali Dominico Riviera]
  • Vita Sancti Hilarionis
  • Vita Sancti Pauli Eremitae
  • Chronicum
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7 risposte a UN UOMO IMPOSSIBILE: EUSEBIUS HIERONYMUS

  1. Alessandro scrive:

    interessante conoscere la vita di san GIROLAMO.ma molto piu conoscere i suoi commenti sui vangeli che non so dove cercarli.

  2. Daniele scrive:

    Sono stato molto contento di aver trovato questo sito. Voglio dire grazie per il vostro tempo per questa lettura meravigliosa! Io sicuramente mi sto godendo ogni post

  3. Vincenzo scrive:

    Grazie all’autore del post, hai detto delle cose davvero giuste. Spero di vedere presto altri post del genere, intanto mi salvo il blog trai preferiti.

  4. Tommaso scrive:

    Non mi capita mai di fare commenti sui blog che leggo, ma in questo caso faccio un’eccezione.

  5. leonardo scrive:

    Grazie all’autore del post, hai detto delle cose davvero giuste. Spero di vedere presto altri post del genere, intanto mi salvo il blog trai preferiti.

  6. Roma scrive:

    Sono impressionato dalla qualita’ delle informazioni su questo sito. Ci sono un sacco di buone risorse qui. Sono sicuro che visitero’ di nuovo il vostro blog molto presto.

  7. Giorgia scrive:

    Non mi capita mai di fare commenti sui blog che leggo, ma in questo caso faccio un’eccezione, perche’ il blog merita davvero e voglio scriverlo a chiare lettere.

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