4_Vita, Amore e Morte nei miti greco-italici / L’ORFISMO

Ciro A. R. Abilitato

già pubblicato in questo sito il 26-05-2011

IL MITO DI ORFEO E LA RELIGIONE ORFICA

Il mito di Orfèo è uno dei più oscuri e carichi di simbolismo della mitologia ellenica. È attestato in epoca antichissima in Tracia, dove si originarono movimenti religiosi che poterono svilupparsi fino a costituire una vera e propria teologia, attorno alla quale si costituì una letteratura abbondantissima e in larga misura esoterica. Lo stesso Orfèo è un personaggio fra i più importanti e complessi della mitologia greca, ma rimane una figura confusa: alcuni sostengono che sia stato un dio, altri che sia stato un eroe, altri ancora un cantore provenente dalla Tracia, ma sembra più probabile che tanto lui quanto l’intero movimento associato al suo nome provenissero da Creta. Le dottrine orfiche contenevano infatti elementi che appaiono originari dell’Egitto, la cui cultura influenzò la Grecia proprio attraverso questa importante isola del Mediterraneo antico. Esistono tuttavia sorprendenti analogie tra le credenze orfiche e quelle dominanti in India più o meno nella stessa epoca. Nelle più antiche forme della leggenda, l’elemento musicale sembra non avere il rilievo che acquistò successivamente, e forse in principio Orfèo fu solo un sacerdote o un teosofo. Ad ogni modo egli fu un riformatore della religione di Dioniso. Anche il mito di Orfèo si fondava sulla credenza che Dioniso fosse nato due volte, una da sua madre Sèmele e un’altra dalla coscia di suo padre Zeus.

Il poeta, musico e cantore tracio Orfèo è ritenuto figlio di Apollo e di Clìo, musa della poesia epica e della storia; oppure figlio del re della Tracia Eàgro e di Callìope, musa quest’ultima della poesia elegiaca, della lirica e dell’eloquenza. Ma talvolta gli si attribuisce come madre anche Polìnnia, musa degli inni sacri ed eroici , nonché della danza; oppure, ma più raramente, era ritenuto figlio della nereide Menìppe, che a sua volta era figlia del poeta e musico Tàmiri. I mitografi ne fanno anche un re della Tracia che governò sui Bìstoni, sugli Odrìsi, sui Macèdoni e così via. Ad ogni modo, la tradizione ci presenta Orfèo come il musico cantore per antonomasia: così soave erano la sua musica e il suo canto che i fiumi e i venti si arrestavano, le pietre si animavano, gli alberi e le piante si protendevano per ascoltarlo, le bestie feroci si ammansivano e lo seguivano, e gli animi degli uomini più feroci erano mitigati. La tradizione gli attribuisce anche l’invenzione della lira o della cetra o, perlomeno, l’aumento delle corde di questi strumenti, che da sette egli portò a nove per equipararne il numero a quello delle Muse.
Orfeo partecipò alla spedizione degli Argonauti, ma più debole degli altri eroi, assunse il compito di capovoga, dando la cadenza ai rematori. Durante un violento fortunale riuscì a riportare la calma tra i membri dell’equipaggio e placò i flutti col canto. Nell’isola di Samotràcia supplicò gli dèi Cabìri, ritenuti protettori della navigazione, di iniziare ai loro culti misterici i suoi compagni di avventura, i quali dovettero a loro volta impegnarsi a farsi iniziare. Durante il viaggio di ritorno, mentre le Sirene cercavano di sedurre i suoi compagni, egli seppe ancora trattenerli col suo canto, che superò in dolcezza gli accenti delle maghe, i cui richiami furono ascoltati soltanto da Bute. Nel poema delle Argonautiche orfiche gli si attribuivano anche altri meriti, come quello di aver scongiurato i pericoli nel corso del viaggio per mezzo delle sue virtù magiche; cosa questa che fa pensare che egli esercitasse tra gli Argonauti le stesse funzioni di un sacerdote.

La leggenda più famosa concernente Orfèo è quella che ci narra del suo immenso affetto per la moglie Euridìce, morta in seguito al morso di un serpente, e del viaggio che egli fece nel mondo infernale, nel tentativo di riportarla in vita. Questo mito, trattato anche da Ovidio nelle Metamorfosi, e di cui il IV libro delle Georgiche di Virgilio ci offre la versione più ricca e compiuta, sembra essersi sviluppato soprattutto come tema letterario in età alessandrina.
Stando alla leggenda, Euridìce, che era una Drìade trace (o una figlia d’Apollo), un giorno in cui passeggiava lungo un fiume della Tracia con le Nàiadi sue compagne, fu morsa da un serpente e poco dopo morì. La versione che ne dà Virgilio è quella secondo cui l’incidente sarebbe accaduto mentre Euridìce fuggiva da Aristèo, il quale la inseguiva per violentarla; ma fra l’erba ella calpestò un serpente che la morse e la uccise. Quando Orfèo la ritrovò, rimase straziato e la pianse inconsolabilmente, ma il suo amore per lei era così forte che egli non esitò a mettersi in viaggio e a discendere negli Inferi col proposito di riportarla alla vita.
Così grande era il suo desiderio di rivedere l’amata che con gli accenti della lira e con i suoi canti melodiosi non solo impietosì le anime dei trapassati ed ammaliò i mostri dell’oltretomba, ma seppe commuovere perfino gli stessi dèi infernali, dai quali fu ascoltato con trasporto e ammirazione.
I poeti rivaleggiano in immaginazione nell’intento di dipingere gli effetti di quella musica divina, raccontando che l’infuocata ruota d’Issìone, interrompendo il suo perenne turbinio, smise di girare; che la pietra di Sìsifo restò in equilibrio da sé; che Tàntalo dimenticò d’aver fame e sete; e perfino che le Danàidi non si preoccuparono più di riempire le loro anfore forate. Infine, Àde e Persèfone, estasiati dal fascino di quella musica e pienamente soddisfatti di quest’uomo che aveva saputo fornire loro una prova così convincente del suo affetto per l’amata, gli concessero di cercare la moglie e di riportarla alla luce del sole. Posero però una condizione, e cioè che il cantore, risalendo alla luce, non avrebbe dovuto voltarsi a guardare la sposa prima di aver lasciato il loro regno. Orfèo accettò, e si mise alla ricerca di Euridice. Quando la trovò, la prese con sé e insieme intrapresero il cammino verso l’uscita dal regno dei morti. Euridice lo seguiva in silenzio e senza fare il minimo rumore sulla strada del ritorno, e così procedettero, l’una dietro l’altro. Stavano per riemergere dal mondo infernale ed erano quasi giunti a rivedere la luce del giorno, quando Orfèo fu attanagliato da un terribile sospetto: “Ma Persèfone” si chiese “non si sarà per caso presa gioco di me? Euridìce mi starà davvero seguendo, oppure le sarà stato impedito di farlo?” E così, non potendo più resistere alla curiosità generata dal dubbio né al desiderio di rivedere sua moglie, non poté fare a meno di voltarsi. Appena lo fece, però, in quello stesso istante, Euridice si fermò, trattenuta da una forza misteriosa, e risucchiata nelle tenebre, svanì per sempre, morendo una seconda volta.
L’angosciato marito tentò di ritornare sui propri passi, e avrebbe voluto cercarla più a lungo e in profondità, ma questa volta Carònte fu inflessibile, e rifiutandosi di traghettarlo sull’altra riva dell’Acheronte, gli impedì di rientrare nel mondo infernale. Così, l’infelice dovette ritornarsene alla luce del sole e fra gli umani senza la sua Euridice.

Il mito della morte di Orfèo ci è stato tramandato attraverso numerose versioni, una delle quali narra che egli morì ucciso dalle Menadi della Tracia. Ma i motivi per i quali il cantore sarebbe incorso nell’odio delle donne tracie variano anch’essi. Talvolta si narrava che l’infelice, ormai senza speranze né sorrisi per la perdita della moglie, provocò lo sdegno delle donne del suo seguito, le quali si sentirono offese a causa dell’indifferenza da lui mostrata verso di loro. Si diceva altresì che Orfèo, non volendo avere più alcun rapporto con le donne, si circondasse di giovani e avesse perfino inventato la pederastia. Suo amico sarebbe stato il figlio di Borèa (lat. Bòrea), Càlai (o Calàide). Oppure, si diceva che Orfèo, al ritorno dagli Inferi, aveva istituito i suoi Misteri fondandosi sull’esperienza fatta nel regno di Ade, ma non aveva voluto ammettervi le donne. Gli uomini si riunivano con lui in una casa sprangata, lasciando le armi davanti alla porta. Una notte, però, le Mènadi si impadronirono delle armi, e quando gli uomini uscirono, uccisero Orfèo con tutti i suoi seguaci. Il fatto veniva anche spiegato con una maledizione di Afrodite. Infatti, durante la disputa con Persèfone riguardo ad Adone, Afrodite aveva dovuto sottomettersi all’arbitrato di Cassìope ordinato da Zeus. E Cassìope aveva deciso che le due dee avrebbero potuto avere con sé Adone solo per una parte dell’anno, alternativamente. Afrodìte si era molto adirata per questa decisione e, non potendo vendicarsi su Callìope, aveva ispirato nelle donne tracie un fortissimo amore per Orfèo. Pertanto, poiché esse non volevano lasciarlo libero, lo fecero a pezzi e ne mangiarono parte del corpo.

Un’altra tradizione, completamente diversa, sosteneva che era stato Zeus ad uccidere Orfèo con un colpo di fulmine, perché adirato contro di lui per aver fatto rivelazioni a dei non iniziati intorno alle verità misteriche.
Ad ogni modo, secondo la versione più comune della morte di Orfèo, le Mènadi, dopo che ne ebbero dilaniato il corpo, ne gettarono i pezzi rimasti nel fiume Ebro (l’odierna Marìzza), che li trascinò in mare. La testa e le labbra, e forse anche la sua lira, furono sospinte dai flutti fino a Lesbo, e qui adagiate sulle spiagge lungo la costa, dove poi furono ritrovate dagli abitanti dell’isola, che tributarono al divino citaredo solenni onori funebri, erigendogli una tomba. Si sosteneva che dal sepolcro si diffondeva talvolta per l’aria il melodioso suono di una lira. Per questo Lesbo fu considerata il luogo per eccellenza della poesia lirica. Sembra che l’isola fosse anche divenuta la sede di una comunità di sole donne che, rimaste devote al cantore-poeta, ne onoravano la memoria dedicandosi all’arte del canto e della poesia. Queste ascete divennero poi il simbolo di quelle donne che rifiutano ogni contatto con altri uomini per amore di un solo uomo, perduto o irrangiungibile. Anche altrove, comunque, si mostrava la tomba di Orfèo: per esempio in Asia Minore, alla foce del fiume Mèle. Si raccontava a tal proposito che, dopo l’uccisione di Orfèo, in Tracia era scoppiata una pestilenza. L’oracolo, consultato, aveva risposto che era un castigo per la morte del poeta, e che, per liberarne il paese, occorreva trovare la testa di Orfèo e renderle i dovuti onori funebri. Dopo molte ricerche, alcuni pescatori sostennero di aver ritrovato la testa del musico sotto la sabbia alla foce del Mèle. Essa, come riferirono, era ancora sanguinante quando la trovarono, e ancora cantava. In Tessaglia esisteva peraltro un’altra curiosa leggenda riguardo alla tomba d’Orfeo. Si diceva infatti che il mausoleo del poeta si trovava un tempo a Lebètra, e che un oracolo del Diòniso tracio aveva predetto che, qualora le ceneri di Orfèo avessero visto il sole, la città sarebbe stata devastata da un porco. Gli abitanti di Lebètra non considerarono seriamente la profezia, ritenendola uno scherzo dell’oracolo, giacché era impossibile che un porco potesse devastare la loro città. Ora, un giorno d’estate, successe che un pastore si sistemò per la siesta proprio sulla tomba di Orfèo, e lì si addormentò. Durante il sonno, compenetrato dello spirito di Orfèo, il pastore si mise a cantare inni orfici con voce melodiosa. Gli operai dei campi, udendo questa musica, interruppero il loro lavoro e accorsero in gran folla attorno alla tomba dove l’uomo cantava. Ne seguì un tale accalcamento che nel pigia pigia le colonne del monumento si spezzarono, sventrando il sarcofago contenente le ceneri del poeta. La notte seguente si scatenò un violento temporale che ingrossò le acque del fiume Sus, sicché la città, che era costruita proprio sulle sue rive, subì l’inondazione di quel fiume, rimanendone in gran parte danneggiata. E così si avverò l’oracolo misterioso: infatti, sus in greco significa “porco”.

Dopo la morte di Orfèo, gli dèi trasformarono la sua lira nell’omonima costellazione del cielo boreale, mentre l’anima del cantore fu trasportata nei Campi Elisi dove, rivestita di una lunga veste bianca, continua a intonare canti per i Beati.
Orfèo passava talvolta per aver fondato, con Dioniso, i Misteri di Eleusi. Una tradizione riferita diversamente voleva che il poeta fosse l’antenato di Omèro e di Esìodo. Ciò che a noi soprattutto interessa è il duplice simbolismo del suo mito, che si esprime attraverso due eterne verità, e cioè da una parte, che la poesia e la musica hanno il potere di ridestare a nuova vita gli esseri insensibili, gli indifferenti e gli oppressi; e dall’altra la constatazione che molti modi di pensare da noi perseguiti si dissolvono nel nulla allorché ci si mostrano nei loro contenuti reali.
Attorno al mito di Orfèo si formò la religione orfica con i suoi misteri, la quale fondava il suo credo sull’immortalità dell’anima, cosa questa spiegata con la discesa agli Inferi di Orfèo. Si diceva che, disceso agli Inferi alla ricerca di Euridìce, Orfeo ne avesse riportato molte conoscenze, tra le quali quella sul modo di giungere al paese dei Beati evitando tutti gli ostacoli e le trappole che attendono l’anima dopo la morte. Anche la morte del dio ha un riscontro nel racconto orfico dello sbranamento da parte dei Titàni del fanciullo divino Dioniso-Zagrèo. La mitologia presenta altresì Apollo come padre di Orfèo, in quanto Apollo era il dio della lira, sicché il culto per l’uno spesso veniva unito al culto per l’altro, come per esempio a Delfi, dove Orfèo e Apollo erano venerati insieme. Esiste tutta una tradizione letteraria che si fa risalire a Orfèo, e che va da semplici formulette popolari scritte su piastre e sepolte con i morti a Inni sacri. Si attribuiva al poeta una Teogonia e il lungo poema epico delle Argonautiche.
Tra le tavolette rinvenute nelle tombe, in gran parte ridotte in frantumi e incomplete, ce ne sono alcune che recano interessanti istruzioni per l’anima del defunto sul modo di trovare la strada della salvezza nell’aldilà, e su come doveva rispondere quando veniva interrogata. Una di queste, tra quelle meglio conservate, è la tavoletta Petelia, su cui si legge:

Tu troverai sulla sinistra della casa di Ade una sorgente
in un pozzo, e al suo fianco un bianco cipresso.
Non avvicinarti a questa sorgente.
Ne troverai un’altra presso il Lago della Memoria:
acqua fredda che sgorga, e davanti guardiani.
Dì’: «Io sono un figlio della terra e del cielo stellato,
ma la mia razza è del Cielo soltanto: questo voi già lo sapete.
E guardate, sono arso dalla sete e perisco. Datemi, presto,
la fredda acqua che sgorga dal Lago della Memoria».
Così da se stessi essi ti daranno da bere dal sacro fonte,
sicché da allora tu avrai accoglienza fra gli altri eroi…

Giunta nell’aldilà, l’anima del defunto, se vuole salvarsi, non deve dimenticare, ma ricordare, e dissetandosi alla fonte del ricordo acquistare capacità di memoria superiori a quelle che possedeva durante la sua vita terrena. Pertanto l’anima è messa sull’avviso di non abbeverarsi al Lète, che porta l’oblio, ma alle acque di Mnemòsine, che è la sorgente della memoria. Solo in questo modo essa potrà trovare accoglienza fra i Beati.

Il culto di Dioniso, nella sua forma originaria, era piuttosto rozzo, e per molti aspetti anche ripugnante, ma non fu così che trovò diffusione nel mondo ellenico e al di fuori di esso, bensì nella forma spirituale della religione di Orfèo, che aveva un carattere spiccatamente ascetico. Per gli orfici il vino era un simbolo molto più significativo del sangue, ed era usato costantemente nei rituali, ma l’ebbrezza doveva essere soprattutto mentale, non l’effetto di una ubriacatura, perché la conoscenza mistica era concepita come qualcosa che non poteva ottenersi con mezzi ordinari, bensì solo col puro entusiasmo della fede, di per sé stesso sufficiente a garantire l’unione col dio. Questo elemento mistico entrò nella filosofia greca con Pitagora, che fu un riformatore dell’orfismo, così come Orfeo era stato un riformatore della religione di Dioniso. Attraverso Pitagora elementi orfici penetrarono nella filosofia di Platone, e attraverso Platone in gran parte della filosofia posteriore, influenzando nei modi più diversi tutti i movimenti religiosi dell’antichità. Ciò nondimeno alcuni elementi decisamente bacchici sopravvissero nell’orfismo. Nelle Baccanti, Euripide fa pronunciare a un sacerdote orfico un’interessante professione di fede:

Signore del linguaggio tirio d’Europa,
da Zeus generato; tu che reggi ai tuoi piedi
le cento cittadelle di Creta,
io ti cerco da quell’oscuro sacrario

coperto di svelti travi formati
dall’acciaio di Chalyb e col sangue del toro selvaggio,
che dal legno di cipresso unito in connessioni perfette
è reso solidissimo, e nel quale c’è un corso d’ acqua purissima.

Le mie giornate sono giunte al loro termine. Ed io, servo,
iniziato del Giove di Ida ,
vago dove vaga Zagrèus a mezzanotte;
io, che ho sopportato il suo ululo di tuono;

che ho adempiuto i suoi festini lunghi e sanguinosi;
che ho mantenuto la fiamma sul monte della Grande Madre;
io, sono liberato e chiamato per nome
un Bacco dai sacerdoti con la corazza.

Abbigliato di puro bianco, io mi sono purificato
dalla vile nascita umana e dalla vita chiusa in una bara,
ed ho esiliato per sempre dal mio labbro
ogni contatto di carne che abbia conosciuto la vita.

Il femminismo era uno degli elementi del culto di Dioniso tra quelli che furono fatti propri dall’orfismo. Di esso esisteva una forte traccia anche in Pitagora, il quale aveva affermato che «Le donne come sesso sono per loro natura più vicine alla pietà». Questo elemento fu accolto anche da Platone che proclamò la completa eguaglianza politica tra i due sessi. Un altro elemento bacchico era l’importanza che si dava all’emozione violenta, la quale caratterizzò tutta la tragedia greca. Euripide, che onorava in modo particolare le due principali divinità dell’orfismo, Dioniso ed Eros, nelle sue tragedie fa dell’uomo freddamente giusto e di buona condotta uno sciagurato, il quale, in punizione della sua empietà, facilmente esce di senno o è perseguitato dalla sventura per volere degli dèi. L’hybris, ossia l’orgoglio di fronte al dio, era considerata la colpa principale dell’uomo, e portava con sé necessariamente cattive conseguenze. Queste idee facevano molta presa sui Greci, perché per essi il vero esempio di personalità divina non era Zeus Olimpio, bensì suo cugino Promèteo, il quale era considerato il benefattore dell’umanità, perché ingannando Zeus, aveva riportato agli uomini il fuoco dal cielo, ottenendo in compenso un’eterna punizione. Un altro esempio di comportamento autentico era quello offerto da uno dei fratelli di Promèteo, Epimèteo, che nei racconti mitologici appare come il maldestro per eccellenza. Queste divinità introducono un elemento nuovo nella storia fisica del cosmo, che è quello di un parteggiare dei principi regolatori dell’ordine naturale per l’uomo. In pratica, nella Grecia antica, Zeus è un esempio di Deus otiosus, vale a dire di divinità distante dall’uomo, la cui condotta sembra risentire delle stesse passioni e degli stessi difetti umani soltanto perché gli uomini non conoscono la logica profonda delle cose, e giudicano in base alle apparenze e alla loro ignoranza. Zeus è onnisciente, perché vede tutto quel che avviene sulla terra, e per questo è innanzitutto il legislatore dalla voce di tuono, il cui governo si estende a tutto l’universo. Egli, però, pure essendo onnipotente, non è né il creatore dell’universo e nemmeno il creatore degli uomini, i quali sono il prodotto di una complessa trama di vicende che interessano le forze primordiali della natura e i loro princìpi ordinatori, che sono appunto gli dèi. L’apatia della divinità suprema, troppo distante dall’uomo per soddisfare le sue innumerevoli necessità di protezione, economiche, sociali e vitali costituisce un aspetto significativo della sua trascendenza. Per Zeus le vicende umane sono troppo piccola cosa rispetto a alle incombenze assegnate alla sua funzione di monarca dell’universo. Interviene nella vita dei mortali, ma solo quando i suoi interessi lo portano ad interferire con essa o quando sembra che gli uomini esagerino nelle loro sregolatezze. In sostanza, le divinità olimpiche sembrano possedere gli stessi difetti degli uomini perché sono le stesse forze naturali di cui la fibra umana è fatta, ma nello stesso tempo sono forze che hanno in sé il loro principio regolatore. L’uomo non può sottrarsi alla legge di natura, per cui, quando si discosta dall’armonia, dall’equilibrio dovuto alle sue qualità razionali, cade vittima di forze che hanno scopi diversi da quelli della sua ragione, sicché egli è di volta in volta un animale selvaggio o un semplice corpo in balia di tali forze.

I misteri rappresentarono un aspetto particolare della religione greca e molti elementi bacchici di antica tradizione fatti propri dall’orfismo penetrarono anche nella religione di Stato. È noto infatti che i misteri eleusini erano impregnati di orfismo, e che nelle cerimonie religiose che si celebravano nel santuario di Eleusi spesso si cantava un inno che diceva:

Con la tua coppa che si libra in alto
con le tue folli orge
alla valle fiorita d’Eleusi
tu vieni Bacco. Peana! Evoè!

Non è dato sapere quale sia stato l’insegnamento di Orfèo, ma l’insegnamento degli orfici ci è in parte noto. Credevano nell’immortalità dell’anima e nella metempsýchosis; termine questo usato da Diodoro, da Gallo e nell’Ecclesiaste, che significa “il passare in altro individuo dell’anima”, ma che potrebbe anche essere sostituito da metensomátosis, usato da Plotino, che significa “il passare in altro corpo”: i due termini possono quindi essere usati indifferentemente, con la differenza che il primo ha un significato più concettuale, il secondo più letterale. Credevano quindi in un elemento vitale dotato di propria personalità e nella sua reincarnazione in corpi diversi. Insegnavano altresì che nella vita ultraterrena l’anima poteva essere ricompensata con l’eterna felicità nell’isola dei Beati, oppure con una eterna sofferenza nel Tàrtaro, o anche con un temporaneo tormento o una gratificazione beatifica nell’uno o nell’altro luogo, a seconda della condotta terrena. Nella religione ufficiale dei Greci permaneva l’antichissima credenza che i morti dimorassero nei loro sepolcri e che talvolta riapparissero sulla terra, nonché quella relativa ad un regno sotterraneo in cui le “ombre” dei defunti seguitavano a vegetare e a rimpiangere di non vivere più sulla terra, mentre solo pochissimi eletti giungevano nell’Eliso o all’Isola dei Beati. Con l’orfismo si diffuse invece la concezione dell’anima immortale che continua a vivere in modo autonomo dopo lo sfacelo del corpo, conservando una personalità propria. Le religioni misteriche soddisfacevano un importantissimo bisogno dei Greci, in quanto offrivano una più concreta immagine dell’aldilà. Esse predicavano la punizione degli empi e dei sacrileghi nell’inferno e la ricompensa dei buoni in un mondo divino o nell’Isola dei Beati. Gli orfici, nella loro pessimistica visione del mondo, definivano il corpo la tomba dell’anima (soma-sema, corpo-tomba) e vedevano nella metempsicosi un mezzo di purificazione dopo la morte. Come si è detto, molti filosofi, soprattutto Pitagora, Empedocle e Platone credevano nella trasmigrazione delle anime e in una teodicea ultraterrena, e anzi si può dire che la concezione degli atomisti, e in particolare quella di Epicuro, venisse in tutti i modi osteggiata dalle religioni e dalle filosofie a forte orientamento metafisico, proprio perché essi sostenevano che l’anima, al pari del corpo, è soggetta al disfacimento e alla morte.

Pitagora (vissuto tra il VI e il V secolo a.C.) , sosteneva che tutti gli esseri animati condividono una stessa natura e che perciò sono congeneri; che l’anima è immortale, e che migra in animali di specie diverse per purificarsi. Secondo la sua concezione, al termine di certi periodi il mondo ricomincia d’accapo ad esistere, e con esso tutti gli esseri. Le stesse leggende sulla figura di questo Maestro sono emblematiche. Il filosofo di Samo  che doveva avere all’incirca quarant’anni quando, per ragioni poco note, venne in Italia, dove si stabilì prima a Crotone e poi a Siracusa  affermava di essere la quinta reincarnazione di un figlio di Ermes, e che aveva la facoltà di ricordarsi tutta la serie delle sue esistenze anteriori e dei soggiorni fatti nell’Ade tra un’incarnazione e l’altra. In virtù di tale prodigiosa memoria egli poteva perfino ricordare per quali piante ed animali la sua anima era passata. Mezzo secolo dopo la sua morte, era già ricordato da Empedocle come un essere sovrumano, ed Erodoto, la cui vita si concluse negli ambienti pitagorici della Magna Grecia e in Sicilia, associava il nome di Pitagora agli insegnamenti e ai miracoli del dio getico Zamolxis e la sua dottrina alle pratiche religiose e magiche degli Egiziani. Si diceva inoltre che, prima di venire in Italia, era stato in Persia, dove avrebbe incontrato il mago Zaratas (Zarathustra), e anche tra i Driudi delle Gallie. Del grande Maestro si diceva che era disceso agli inferi e che ne era risalito, che aveva una coscia d’oro, che possedeva il dono dell’ubiquità e capacità profetiche. Il carattere mistico del Pitagorismo e la sua vicinanza all’orfismo è posto in risalto anche da altri indizi, come il fatto che il Maestro parlava ai novizi nascosto da una tenda, e che nessuno poteva pronunciare invano il suo nome, fatto questo attestato dalla formula aytos èfa (in latino, Ipse dixit), “egli lo ha detto”, che stabiliva la necessità di crederne ciecamente la parola. Il sentimento dei seguaci nei confronti del Maestro è espresso chiaramente in una formula riferita da Aristotele, che così recita: «C’è una specie di animale ragionevole che è il dio, e un’altra specie che è l’uomo; Pitagora è un esempio della terza». In altre parole, si voleva dire con ciò che il Maestro era di quegli uomini ispirati e demoniaci che sono gli intermediari tra l’ordine divino e umano. Per i Pitagorici, anche in mancanza di condanne infernali, l’incarnazione significava sempre che l’anima non aveva compiuto per intero il ciclo delle proprie purificazioni. È noto come Senofane deridesse Pitagora rappresentandolo nell’atto di trattenere il braccio di un tizio che bastonava il suo cane, facendogli dire: «Smetti subito di picchiarlo, di certo deve essere l’anima di un mio amico: udendone la voce l’ho riconosciuto!».

Secondo queste credenze qualsiasi anima poteva entrare in qualsiasi corpo in virtù di un’affinità che univa fra loro tutti i viventi. Per questo fra i molti divieti osservati dai Pitagorici c’era quello di astenersi dalle fave, perché il fusto della pianta, si diceva, privo di nodi, è un passaggio naturale per le anime che risalgono verso la luce. Ma presumibilmente sotto tali divieti, spesso inspiegabili, si nascondevano ragioni molto più comprensibili, come per esempio il divieto per le fave, che poteva essere legato a quella grave anemia emolitica conosciuta come favismo, molto diffusa nelle regioni costiere dell’Italia meridionale. I Pitagorici credevano altresì che ogni offesa arrecata al corpo si ripercuotesse sull’anima, sicché giudicavano l’attentare alla vita di un uomo (ma anche di un animale, se fatto senza necessità) un peccato gravissimo, e ciò in quanto consideravano ogni vivente una proprietà degli dèi.
Empedocle di Agrigento (attivo nel sec. V a.C.), il cui pensiero fu fortemente influenzato dalle dottrine degli Eleati, di Eràclito e dal Pitagorismo, riteneva, come gli Orfici, che l’anima immortale conservasse la sua individualità anche nell’altro mondo, e che per purificarsi essa fosse costretta per “tre volte diecimila anni a errare qua e là lontano dai Beati” e a passare in successione attraverso tutte le forme mortali. Diceva inoltre che egli stesso era un vagabondo su questa terra, perché per prestare fede alla furente Discordia era stato esiliato dalla divina dimora. Sosteneva anche di non aver perduto il ricordo delle sue precedenti migrazioni, e che la sua attività di profeta, di guaritore, di poeta e di indagatore della verità era resa possibile dal fatto che si trovava ormai all’ultimo stadio dell’espiazione, e che presto sarebbe stato tratto da questa “Valle di lacrime” per essere accolto nell’antica dimora, fuori dalla “caverna”, lontano dal male e dalla sofferenza.

Anche la teoria platonica della reminiscenza, dell’immortalità dell’anima e della trasmigrazione attraverso i corpi, corrisponde in larghe linee alla concezione orfica. Nel Menone Platone (V-IV secolo a.C.) affronta il problema della reminiscenza (anàmnesis), sostenendo che l’anima ha già in sé la conoscenza acquisita nelle vite precedenti, solo che nella sua vita terrena tale conoscenza è offuscata dall’oblio, per cui per un uomo imparare significa sostanzialmente ricordare. Nel Fedone, invece, Platone elenca diverse prove dell’immortalità dell’anima che si aggiungono all’argomento della reminiscenza, una delle quali è quella secondo cui l’anima è immortale perché è un principio vitale diverso sia dalla materia di cui sono fatti i corpi sia dalla forma di cui essi si rivestono (è una diversa “idea”); l’elemento vitale è indistruttibile, in quanto non può contenere in sé alcun principio che gli sia contrario; se infatti così fosse la vita non sarebbe possibile. In pratica, secondo questa teoria, la morte non esiste, giacché essa consisterebbe solo in un cambiamento di stato dei corpi materiali, senza nessuna compromissione dell’elemento vitale che li pervade e li anima. Ma la teoria più esaustiva sulla concezione della vita e dell’anima ci è data da Platone nel celebre mito di Er, in chiusura della Repubblica, col quale espone una cosmologia, a dire il vero piuttosto oscura, e una teoria in cui è contenuta un’interessante concezione sulla predestinazione delle anime e la reincarnazione, la quale trova riscontro in analoghi miti escatologici riportati nel Fedone, nel Gorgia e nel Fedro.

Er, figlio di Armenio della Panfilia, è un guerriero morto in battaglia che ha passato dodici giorni nell’Ade, e che non avendo bevuto l’acqua del fiume Incurio (Àmeles) nella pianura dell’Oblio (Lete), può raccontare agli uomini cosa ha visto durante il suo breve viaggio nell’aldilà. Non era infatti ancora giunto il suo momento quando era morto, sicché la sua anima viene rimandata sulla terra a riprendere il suo posto nel corpo che occupava, il quale, nel frattempo, era stato riportato a casa e posto sulla pira per essere arso. Nell’aldilà i giudici dissero a Er che era stato fatto venire lì acciò assistesse a tutto quanto vi accadeva, in modo da poterlo raccontare agli uomini una volta ritornato in vita. A tal proposito bisogna considerare che i casi di resurrezione non erano infrequenti nel mondo greco, ed interessavano personaggi che poi rimanevano fissati nelle leggende, come per esempio Aristèa di Proconnéso, Epimènide di Creta e Zamòlxis il Trace. La parte più importante del racconto di Er riguarda la scelta del destino alla quale le anime sono invitate al momento della loro reincarnazione. Infatti, per effetto del codice penale ad esse applicato, in virtù del quale è anche stabilita la procedura del trattamento da eseguirsi caso per caso, alle anime è concesso, ogni mille anni, a meno che non abbiano commesso colpe che esigano una più lunga espiazione, di scegliersi una nuova vita terrena. Vari modelli di vita, come se fossero scelti da un catalogo, vengono posti davanti a loro, da quelli animali a quelli umani, mentre un araldo, disponendole in fila, assegna ad ognuna il proprio turno mediante l’estrazione casuale di un numero d’ordine. Poiché il numero dei modelli è in larghissima misura superiore a quello delle anime, l’ultima di esse non si troverà svantaggiata rispetto alle altre, avendo essa pure a disposizione una grande varietà di modelli fra cui scegliere. Ogni anima è responsabile della propria scelta, la divinità non interviene e non la influenzerà, e ognuna sarà accompagnata nella sua vita terrena dal dèmone che liberamente l’anima stessa avrà indicato come guardiano della sua condotta. Tutto, quindi, sta nel fare la scelta giusta e a non lasciarsi abbagliare dall’apparenza di certe vite che sembrano promettere bene e che invece celano il peccato e l’infelicità. Ma, naturalmente, influisce sulla decisione il ricordo, più nitido, dell’esperienza fatta nell’ultima vita, per cui le anime devono fare attenzione e decidere con prudenza. La cosa avviene come in una di quelle trasmissioni televisive a quiz, in cui il concorrente o se ne tornerà a casa con cinque milioni di euro in tasca, e che potrà spendere come meglio gli parrà, oppure con una simpatica biro con cui firmerà tutte le cambiali che dovrà pagare per l’intera vita. Una volta fatta la propria scelta, ciascuna anima può leggere tutto intero il proprio destino, che è irrevocabile, in quanto le tre vecchie sorelle figlie di Anànche (la Necessità), vale a dire le Parche (Mòirai), confezioneranno per lei la vita che si è scelta: Làchesi, che presiede all’opzione delle sorti, svolgerà il filo dal fuso; Clòto filerà una vita nuova sulla base del modello prescelto, tessendola con la sorte delle vite assegnate alle altre anime; Atropo reciderà lo stame, aggiudicando alla nuova vita la durata della sua permanenza terrena. Ad ognuna di queste operazioni della catena di montaggio corrispondono naturalmente precise posizioni degli astri nel cielo. Conseguentemente, ogni fase dell’assemblaggio è irrevocabile, in quanto contemporaneamente omologata e iscritta nell’ordine cosmico. Infine, il passaggio delle anime, insieme col loro demone guardiano, sotto il trono della Necessità, fa sì che ciascuna possa trarre immediatamente le conseguenze della sua scelta già prima di entrare nella vita assegnatale; in tal modo, prima di perdere la memoria di tutto quel che è accaduto nell’aldilà, ogni anima è in grado di valutarsi in relazione alla scelta effettuata.
Nei misteri orfici il devoto riviveva la vicenda di Còre, cioè di Persèfone, che rapita da Ade, veniva cercata in ogni dove da Demetra, finché le due dee non si ricongiungevano. Questi riti e queste rappresentazioni, collegati in origine all’agricoltura, dovevano assicurare ai mystai, cioè agli iniziati, l’immortalità in un altro mondo. Per l’orfico la vita su questa terra non è che dolore e tribolazione, giacché tutti gli uomini sono avvinti ad una ruota che gira per infiniti cicli di nascite e di morti; ma la vera vita non è qui in terra, bensì dove sono le stelle. Diversamente dalle altre dottrine religiose, l’orfismo si caratterizzava come una mistica a carattere eminentemente soteriologico e per avere una sua propria teologia fissata anche per iscritto, che si fondava prevalentemente sull’idea che gli uomini, sorti dalle ceneri dei Titàni arsi da Zeus, dovevano liberarsi della colpa originale di cui si erano macchiati e accogliere quanto era stato loro rivelato da Dioniso, al fine di salvare la parte più spirituale della loro natura. Con questo intendevano sostenere che l’uomo appartiene in parte alla terra e in parte al cielo, e che per mezzo di una vita pura, la vita celeste si accresce a discapito di quella terrena. Quando un uomo che abbia osservato tutte le prescrizioni della fede entra infine in intima unione col dio, egli diventa una sola cosa con lui, e allora può essere chiamato “un Dioniso” o “un Bacco”. Questo scopo era raggiungibile mediante la purificazione e la continenza. Soltanto per mezzo della purificazione, della rinuncia e della vita ascetica, si riteneva che gli uomini potessero sfuggire alla ruota della vita e delle rinascite per giungere alla definitiva unione col dio. La purezza poteva essere ottenuta in parte con le cerimonie di purificazione, in parte evitando certe contaminazioni. I più ortodossi si astenevano totalmente dal cibo animale, tranne che in occasione di quei riti per i quali la regola prescriveva di mangiarne.
Sull’organizzazione interna dei circoli religiosi e sui singoli riti misterici si hanno soltanto vaghe notizie, in quanto gli iniziati osservavano in maniera così assoluta il precetto di non farne parola con nessuno, che nulla è trapelato in letteratura. Si sa soltanto che, come per i popoli orientali nel loro più antico stadio di sviluppo, non si ebbero nell’orfismo dei veri e propri sacerdoti, ma solo dei “chiamati”, quindi non altro che dei volontari, che al di fuori degli impegni relativi alle loro mansioni religiose, non si distinguevano dagli altri cittadini. Per quanto riguarda i misteri si sa che essi erano celebrati ricorrendo a un gran numero di rituali simbolici accompagnati da canti, musica, danze e rappresentazioni mimiche, e che erano caratterizzati da ogni sorta di usanze cultuali che avevano a che fare con i diversi episodi e significati della leggenda delle divinità misteriche. Ad esempio, nei misteri eleusini gli iniziati bevevano birra d’orzo e ostentavano una spiga “colta in silenzio”, mentre riti speciali venivano praticati in occasione delle iniziazioni, le cui date erano stabilite sulla base di un calendario lunare. Anche per gli orfici l’orgia era considerata un vero e proprio sacramento, la cui azione liberatoria consisteva nel rompere tutti quegli schematismi della vita che non consentivano la purificazione dell’anima del credente.
L’orfismo raggiunse l’acme del suo sviluppo con la fondazione delle comunità orfiche. Fin dove ci è consentito spingerci sulle sue tracce, la sede originaria di queste fu l’Attica, ma esse si diffusero con straordinaria rapidità specialmente nell’Italia meridionale ed in Sicilia. Tali comunità erano innanzitutto associazioni di fedeli che si raccoglievano per il culto di Dioniso, ma si distinguevano dalle altre religioni per il fatto che consideravano la rivelazione come l’origine dell’autorità religiosa, e perché ogni congregazione aveva un suo proprio statuto e sue proprie regole, per cui l’iniziazione assumeva il significato di una volontaria adesione del fedele ad una regola di vita. I componimenti poetici attraverso i quali si esprimeva la teologia del culto erano attribuiti all’Orfèo tracio, che essendo disceso nell’Ade, era una sicura guida per l’anima liberata dal corpo contro le insidie che essa avrebbe incontrato nel suo viaggio nel mondo ultraterreno.

6_Eàgro è considerato dai mitografi un dio-fiume. Circa la sua genealogia, le tradizioni variano, facendolo ora figlio di Ares, ora di Pièro, ora di Càrope. In quest’ultima versione Eàgro è un re della Tracia che ha per moglie la Musa Callìope, che è la madre di Orfèo, oppure la Musa Polìnnia, o Clìo. Autori tardivi ne fanno il padre di Màrsia, di Lino e di Cimótone.

7_Il Giove del monte Ida, a Creta, è misticamente identificato con Dioniso, perché, giusta la leggenda, è sul monte Ida che Rea nascose il figlio Zeus per sottrarlo a Crono; qualcosa di simile, dunque, a quanto la tradizione vuole sia accaduto a Dioniso con Èra.

8_Zagrèus non è che un altro dei molti nomi attribuiti a Dioniso.

9_Isola di Samo 570 – Metaponto 490 a.C.

10_Atene 427 – 347 a.C.

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ANCORA SUL MITO DI ER

Nella Repubblica, seguendo il filo di un unico discorso, Platone affronta diverse questioni, tutte di grande importanza, come quella di cosa sia la giustizia e di come possa essere pensato uno Stato ideale che sia fondato su tale principio, spiegando come si debbano educare i cittadini, come sia possibile la conoscenza (argomento illustrato facendo ricorso al mito della caverna), quali siano le forme di governo esistenti e in che modo si debbano considerare l’arte e la poesia. Alla fine del libro X, Platone coglie anche l’occasione per spiegare il suo punto di vista circa la questione dell’immortalità dell’anima, che esemplifica col mirabile racconto del mito di Er, in cui trova posto anche una suggestiva immagine dell’armonia cosmica. A spiegare le cose è Socrate, il saggio e il sapiente per antonomasia, che si è recato con Glaucóne, Polemàrco, Trasìmaco e Adimànto, suoi amici, a casa di Cèfalo, dove appunto ha luogo il dibattito. L’incontro si svolge durante le feste bendìdie, festività religiose a carattere orgiastico che si tenevano ad Atene nel mese di maggio in onore della dea lunare Bèndis (identificata con l’Artemide tracia), e che si aprivano con una processione e una fiaccolata notturne.

Il valoroso combattente, figlio di Armenio della Panfilia, era morto in battaglia. Quando al decimo giorno si raccolsero dal campo i cadaveri dei guerrieri già in stato di decomposizione, quello di Er fu riportato presso la sua famiglia affinché potesse essere compianto e ricevere gli onori funebri. Così, al dodicesimo giorno, venne adagiato sulla pira, ma improvvisamente, poco prima di essere arso, il corpo si rianimò. Er, risvegliatosi dal sonno della morte, poté raccontare a tutti del suo viaggio nell’aldilà. Disse che la sua anima, dopo essersene uscita dal corpo, aveva fatto un viaggio insieme a molte altre, e che infine si era trovato in un luogo meraviglioso: una grande e verde pianura ove era riunita una gran folla di anime. Questo luogo doveva essere qualcosa di simile al prato asfodelo che si trova nell’Erebo, nominato nell’Odissea ai versi 539 e 573 del libro XI, e al verso 13 del libro XXIV, dove Ulisse si trattenne per incontrare le anime dei morti. A quanto Er poté constatare, era un luogo di arrivo e di partenza, una specie di aeroporto o di grande stazione ferroviaria, perché molte anime vi giungevano in continuazione provenendo da due voragini, una che si apriva nel cielo e un’altra che si apriva nella terra, mentre le anime che partivano si incamminavano per altre due voragini, contigue a quelle degli arrivi, e quindi anch’esse situate una in cielo e una in terra. Naturalmente, quelli che partivano avevano un biglietto, il quale veniva loro attaccato sul petto se dovevano salire verso l’alto, sulla schiena se dovevano scendere nel sottosuolo. Le anime riunite nel prato sembravano reduci da un lungo viaggio ed apparivano liete di aver fatto scalo in quel posto e di potersi incontrare.
L’atmosfera era quella di un’adunanza festiva, giacché i convenuti si abbracciavano incontrandosi e discutevano a gruppi scambiandosi notizie delle rispettive vicende. C’erano anime che cercavano tra la folla altre anime di conoscenti o di persone care, spesso nominandole a gran voce. Le anime provenienti da sottoterra chiedevano alle altre notizie del mondo di lassù, mentre quelle che venivano dall’alto si informavano del mondo sotterraneo. Nello scambiarsi i racconti le une piangevano e si lamentavano al ricordo di quel che avevano passato  per mille anni, dicevano , mentre quelle provenienti dal cielo riferivano le visioni di beatitudine e di straordinaria bellezza che avevano contemplato. Nel mezzo del vasto prato, e quindi in un’area centrale tra le imboccature dei quattro tunnel, era assisa una commissione di magistrati, davanti alla quale venivano via via condotte le anime di coloro che erano appena deceduti e che, come quella di Er, erano arrivate in quel luogo per una via diversa da quella dei quattro tunnel. Er comprese che i giudici esaminavano immediatamente soltanto le anime che erano venute lì dalla vita, le quali, dopo l’emissione del verdetto, se degne di premio, venivano indirizzate verso il tunnel a destra che saliva al cielo, mentre se giudicate immeritevoli venivano indirizzate, per la condanna, verso il tunnel di sinistra che scendeva in basso. Quelle meritevoli di premio recavano il contrassegno della sentenza attaccato al petto, quelle che invece erano state condannate avevano il contrassegno attaccato sulla schiena, con l’indicazione di tutte le colpe di cui si erano macchiate in vita. Inoltre, mentre nessuna delle anime assolte si sognava di sbagliare strada, qualora qualcuna delle anime inette si introduceva nel tunnel riservato alle anime dei giusti, l’imboccatura di questo la respingeva ed emetteva un muggito spaventoso, per cui ciascuna anima provava la massima gioia se al suo passaggio l’imboccatura taceva.
Tutti questi particolari risentono fortemente delle concezioni orfico-pitagoriche, le quali identificavano il bene con ciò che si trova a destra, in alto e davanti, e il male con ciò che, al contrario, sta a sinistra, in basso e dietro, così come anche la durata del viaggio ultraterreno di Er riflette l’influsso dei Pitagorici, per i quali il 12 era il numero distintivo del dodecaedro, figura che divisa per metà dava due pentagoni a loro volta costituiti da altri sei pentagoni identici. Da questa figura i Pitagorici derivavano il famoso emblema mistico del Pentalpha. Analogamente, sempre secondo tali concezioni, la durata della permanenza delle anime nell’aldilà doveva essere di mille anni, come anche riporta Virgilio nel VI dell’Eneide ai versi 748-49. È utile ricordare a tal proposito che il numero mille, potendosi rappresentare come la terza potenza di dieci, era considerato dai Pitagorici un simbolo di perfezione. Essi infatti sostenevano che la “Decade è grande, perché porta a compimento e realizza ogni cosa; che essa è il principio e la guida della vita, sia divina che umana; e che senza di essa tutto è indeterminato, misterioso e oscuro”. Nella Decade è racchiuso un ugual numero di dispari e di pari, vi è l’unità col primo pari, il primo dispari col primo quadrato; essa è perciò considerata il fondamento di tutti i numeri. Inoltre, mentre il 3 è sacro perché è il primo numero perfetto avente in sé principio, mezzo e fine, ed è per questo il simbolo dell’Armonia e del Tutto, il 10 è il simbolo della tetraktys. Questa è il numero quaternario, che in via di principio è la serie dei primi quattro numeri naturali la cui somma è 10, e che si rappresenta col triangolo dodecadico, nel quale è compresa la progressione geometrica, di ragione 2 e 3, dei primi quattro numeri a partire dall’unità.

Ad ogni modo, giunto il suo turno, anche Er fu convocato dinanzi alla corte, ma invece di essere giudicato, gli fu detto che avrebbe dovuto assistere a tutto quel che accadeva, di ascoltare e di osservare ogni cosa per poi andarlo a riferire agli uomini quando avrebbe fatto ritorno alla terra. Quindi Er non fu giudicato e poté vedere liberamente cosa accadeva alle anime. Frattanto, mentre le anime provenienti dalla vita venivano giudicate e smistate per due diverse destinazioni, dalla voragine aperta nel suolo continuavano a risalire anime piene di lordura e di polvere, le quali sostavano nella pianura unendosi alle anime dei giusti, che vi giungevano scendendo dall’altra voragine posta nel cielo.
Ascoltando attentamente i discorsi delle anime e le sentenze dei giudici, Er poté capire che le anime degli ingiusti venivano trattate in modo che pagassero un fio al decuplo della colpa, e quelle dei giusti in modo che ricevessero un premio dieci volte superiore per ogni atto meritevole compiuto, e che ogni singola pena e ogni singolo premio erano calcolati in cento anni, perché tale era l’ordine di durata della vita umana. Ad esempio, se un’anima si era fatta delatrice di città o eserciti, rendendosi responsabile con un unico atto ingiusto della morte o della schiavitù o della sofferenza di molte persone, essa riceveva una pena dieci volte superiore non in relazione al singolo atto commesso, ma ad ogni singola vita su cui il suo atto aveva pesato. Naturalmente, per i benefici arrecati il criterio era lo stesso, mentre la pietà e l’empietà verso dèi e genitori e il reato d’omicidio venivano ripagati in misura anche maggiore. Per quanto riguarda il giudizio delle anime di coloro che erano morti appena nati, dice Platone, Er riferì altre cose che sarebbe lungo ricordare. Le cose procedettero così per sette giorni, ed Er poté vagare per il prato e ascoltare i discorsi delle anime che vi erano assiepate. Nel riferire la sua esperienza, Er disse anche che ad un certo punto si era trovato accanto ad un tale a cui un altro aveva chiesto se avesse visto Ardieo il Grande. Questo personaggio, che probabilmente è un’invenzione di Platone, è un’anima irrecuperabile, esclusa dalla reincarnazione, presentata come quella di uno che, mille anni prima, era stato il tiranno di una città della Panfilia, e di cui si diceva, tra le varie altre cose, che avesse ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore. L’interrogato rispose che Ardieo non si trovava lì, e che era inutile aspettarlo, perché non sarebbe mai arrivato, in quanto, così come era accaduto a molte altre anime, soprattutto di tiranni, ritenute inguaribili o comunque tali da meritare un supplemento di pena, l’imboccatura, emettendo alti muggiti e restringendosi, non lo aveva lasciato uscire dal suo luogo di detenzione. Ardieo, infatti, credendo di aver scontato la sua pena, aveva tentato di uscire come gli altri, ma appena si era avvicinato all’imboccatura, questa si era messa ad ululare respingendolo, sicché alcuni tipi orrendi e dall’aspetto rabbioso avevano afferrato lui ed alcuni altri e, scaraventatili a terra, li avevano prima scorticati e poi, trascinatili lungo una strada molto frequentata, li avevano distesi su certe piante spinose e li avevano cardati di santa ragione, facendo conoscere a tutti quelli che passavano di lì di quali colpe orribili si erano macchiati, e spiegando che dopo quella lezione sarebbero stati portati via per essere precipitati nel Tartaro.

Platone, nel Gorgia, fa raccontare a Socrate un altro mito, quello della riforma del Tribunale supremo, che spiega come venne istituita la corte dei giudici celesti e come i defunti dovessero presentarsi dinanzi ad essa. All’inizio, dice Socrate, all’epoca di Crono e anche al principio del regno di Zeus, gli uomini venivano giudicati da vivi, nel giorno stesso in cui dovevano morire, e i giudici erano altri uomini viventi. I giudizi, però, venivano dati male, perché molti uomini, pur avendo anime malvagie, avevano bei corpi, bei vestiti e sfoggiavano nobiltà e ricchezze; e inoltre accorrevano ai processi numerosi testimoni a deporre in loro favore. I giudici venivano così influenzati dall’aspetto e dai favoreggiamenti, e questo perché essi pure giudicavano vestiti, apparendo quel che non erano. Le cose rimasero così finché Plutone e i guardiani delle Isole dei Beati non andarono da Zeus a protestare per la situazione creatasi, giacché arrivavano nei loro regni anime di uomini che non meritavano di essere mandate a starci. Zeus stabilì allora, prima di tutto, che d’ora in avanti gli uomini non avrebbero saputo niente di quando sarebbero morti, e poi che sarebbero stati giudicati nudi, subito dopo essere morti, e da soli, senza tutta la parentela. Anche i giudici, disse Zeus, al fine di evitare che le sentenze risultino affette da condizionamenti ambientali ed esteriori, dovranno essere non solo nudi e morti, ma anche in grado di giudicare, e quindi esperti del bene. Perciò, disse Zeus, poiché ero già stato informato di queste cose prima che voi veniste a dirmele, ho nominato giudici i miei stessi figli Minosse e Radamante provenienti dall’Asia, ed Eaco fatto venire dall’Europa. Il primo con la funzione di giudice aggiunto, acciò sia più giusta possibile la sentenza sulla destinazione delle anime. Costoro, appena gli uomini saranno morti, giudicheranno le loro anime nel trivio formato dalla confluenza della strada che viene dalla terra con le due strade che portano una alle Isole dei Beati e l’altra al Tartaro. In questo modo, i giudici potranno leggere nell’anima del morto tutto ciò che in essa le sue azioni e le sue esperienze vi avranno impresso.
Ma riprendendo il racconto di Er, questi disse che al termine dell’ottavo giorno tutte le anime che si trovavano riunite sul prato furono fatte alzare per essere trasferite in un altro posto, e che dopo aver camminato per un intero giorno esse giunsero in un luogo da dove si vedeva la terra vicinissima nel cielo, e una diritta colonna di luce che l’attraversava, molto più splendente e pura dell’arcobaleno. La colonna di luce rappresenta l’asse dell’universo, che attraversa da parte a parte la Terra. Più tardi le anime viaggeranno lungo questo asse luminoso per raggiungere il centro della Terra, da dove poi, ricevendo un corpo che si formerà nell’utero di una madre, verranno reintrodotte nella vita. Da ciò si capisce anche il simbolismo legato alla donna, considerata nell’orfismo una specie di Terra vivente, una vera e propria materia gestans, da cui la parola mater, racchiudente l’intero concetto, intesa come l’essere portatore di vita e in cui si realizza l’unione della sostanza, della forma, della vita biologica e dell’anima dotata di identità personale. Nel Fedone Platone ci descrive l’itinerario delle anime che dopo essere state giudicate ritornano alla vita, fornendoci un’immagine della struttura della Terra che, in certo qual modo, con le sue cavità, i suoi rilievi e i suoi fiumi interni, può essere sovrapposta alla struttura anatomica del corpo degli animali e dell’uomo. Per questo motivo gli animali e l’uomo sono considerati quali prodotti della terra, cioè materia vivente, al pari delle piante. A differenza di queste, però, essi si muovono, sono più autonomi, e non più ancorati in modo fisso alla materia: hanno cioè in sé una diversa potenzialità. In queste concezioni l’energia vitale e la materia non si creano né si distruggono, mentre la biologia adombra una sorta di evoluzionismo predarwiniano.

Dal luogo in cui, secondo il racconto di Er, furono condotte le anime, si vedeva anche appeso nel cielo il fuso di Ananke (la Necessità), che col suo movimento dava origine a tutti i moti celesti. Il fusaiolo, cioè il piccolo globo che si trova nella cocca inferiore del fuso e che serve a mantenerne l’appiombo, era costituito da una mescolanza di acciaio e di altri metalli. Stando alla descrizione che ne dà Er, il fusaiolo era cavo, e al suo interno erano incastrati l’uno nell’altro, come scatole cinesi, altri fusaioli via via più piccoli, tutti variamente luminosi, per un numero complessivo di otto. Dall’alto si vedevano i bordi simili a cerchi di tutti questi fusaioli, che formavano il dorso continuo di un solo fusaiolo intorno all’asta, la quale trapassava l’ottavo più interno. Il fuso ruotava sulle ginocchia di Ananke con moto uniforme, e nella rotazione complessiva i sette cerchi interni giravano lentamente e con diversa velocità in direzione opposta all’insieme: il più rapido era l’ottavo, seguito dal settimo, dal sesto e dal quinto, che procedevano assieme, mentre, in questo moto retrogrado, il quarto cerchio sembrava terzo in velocità, il terzo quarto e il quinto secondo. Su ciascuno dei cerchi si trovava una Sirena che emetteva una sola nota di un unico tono, ma dalla mescolanza di tutte le note emesse dalle Sirene su tutti gli otto cerchi delle sfere celesti risuonava una sola armonia. Altre tre donne, ciascuna sul proprio trono, sedevano in cerchio a uguale distanza: erano le Moire figlie di Ananke, vestite di bianco e col capo cinto di bende. Sull’armonia delle Sirene Làchesi cantava il passato e con la mano destra toccava a intervalli il cerchio esterno del fuso per farlo girare; Clòto cantava il presente e ripeteva con la sinistra lo stesso gesto toccando i cerchi interni del fuso; Atropo cantava il futuro e accompagnava entrambi i movimenti ora con l’una ora con l’altra mano.
Tutte le anime furono dunque riunite in questo nuovo luogo per rimanervi altri tre giorni. Un araldo le dispose in fila, e così ordinate esse dovettero presentarsi una per volta a Lachesi. Poi l’araldo prese dalle ginocchia di Lachesi le sorti e i modelli di vita, salì su un’alta tribuna e lesse un proclama, annunciando alle anime che esse sarebbero ritornate a vivere, e che avrebbero potuto scegliere un modello di vita e un demone, cioè una coscienza, che avrebbe vigilato sulla loro condotta. Dopo aver pronunciato la solenne allocuzione, l’araldo gettò su tutti i numeri, in base ai quali sarebbe stato stabilito l’ordine dei turni da rispettare per la scelta della nuova vita. Tutte le anime ricevettero quindi un numero d’ordine estratto a caso, tranne Er. Fatto ciò, l’araldo prese i modelli di vita, che erano in numero molto maggiore delle anime presenti, in modo che l’ultima non sarebbe stata svantaggiata rispetto a quelle che l’avevano preceduta. Chiamando le anime secondo il loro numero, l’araldo le faceva scegliere. C’erano tutti i tipi di vita mischiati alla rinfusa, quelli dei tiranni, quelli di uomini illustri, quelli dei gaudenti, di atleti, di artigiani, eroi, condottieri, marinai, ricchi, poveri, e così via, e lo stesso valeva anche per le donne.
Er narrò che il primo andò subito a scegliersi la vita di un potentissimo tiranno, non considerando, per la sua ingordigia, che era destinato a divorare i suoi figli e a incorrere in altre sventure; ma quando si avvide della sua scelta sbagliata, prese ad accusare il fato, i demoni, gli dèi e tutti fuorché se stesso. Costui faceva parte di quelli provenienti dal cielo, e nella vita precedente aveva praticato la virtù per abitudine. A dire il vero, disse Er, quelli provenienti dal cielo che facevano simili scelte non erano pochi, in quanto non avevano esperienza di sofferenze, mentre quelli che venivano dal Tartaro di solito non facevano scelte così avventate, poiché avevano sofferto personalmente e avevano visto altri soffrire. Perciò, tra la maggior parte delle anime avveniva in genere uno scambio di vite buone e cattive. Er disse che lo spettacolo delle anime intente a scegliere la propria vita era nello stesso tempo pietoso, ridicolo e singolare, dato che tutte sceglievano per lo più in base all’esperienza ed alle abitudini della vita precedente. Er raccontò quindi di aver visto l’anima di Orfeo scegliere la vita di un cigno per odio verso le donne, perché essendo morto per mano loro, non voleva nascere dal grembo di una donna. L’anima del mitico cantore Tàmiri (o Tàmira), che nella vita precedente aveva osato gareggiare con le Muse, e che da queste era stato per punizione privato della vista e della voce, scelse invece la vita di un usignolo; ma ci furono anche anime di cigni e di altri animali canori che scelsero di trasformarsi in uomini. L’anima che venne per ventesima, disse Er, fu quella di Aiace Telamonio, che ricordando il giudizio delle armi scelse la vita di un leone. Dopo Aiace venne Agamennone, che detestando il genere umano per le sofferenze subite, scelse la vita di un’aquila. La mitica cacciatrice Atalanta preferì invece la vita disseminata di onori di un atleta. Epèo, figlio di Panopèo, combattente di scarsa abilità, ma a cui i Greci dovettero la costruzione del cavallo di Troia, volle la vita di una donna laboriosa. Tersìte, il più odioso dei Greci, venne tra gli ultimi, e si prese la vita di una scimmia. L’anima di Odìsseo, che fu l’ultima, guarita dall’ambizione grazie al ricordo dei travagli passati, si cercò la vita di uno sfaccendato qualsiasi, e a fatica ne trovò una che era stata trascurata dagli altri: quando la vide disse che avrebbe scelta quella, anche se fosse stato il primo nel sorteggio, e tutta contenta se la prese. Così, allo stesso modo che gli uomini sceglievano vite di animali o di altri uomini, gli animali si trasformavano in uomini o in altri animali, con mescolanze di ogni sorta. Er disse che quando tutte le anime ebbero scelto la propria vita, si presentarono una ad una a Lachesi, secondo l’ordine del sorteggio, per l’assegnazione del demone custode per cui avevano optato; poi venivano ricevute da Cloto, che filava per loro il destino scelto, intrecciandolo a quello delle altre vite; e infine giungevano dinanzi ad Atropo, che rendeva immutabile la trama della loro esistenza terrena, iscrivendola definitivamente nel tempo e nel moto degli astri. Fatto questo, ogni anima veniva fatta passare sotto il trono di Ananke col suo demone custode, e poi tutte insieme venivano di nuovo radunate per essere condotte nella pianura desertica del Lete, cioè dell’Oblio, immersa in una calura soffocante, dove a sera si accamparono presso il fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta in vasi e borracce. Tutte le anime furono costrette a bere l’acqua del fiume della noncuranza, e le meno prudenti ne bevevano molta per la gran sete, e così, via via che si dissetavano, si dimenticavano di ogni cosa. Dopo essersi dissetate, tutte le anime si addormentarono, ma nel cuore della notte scoppiò un tuono fragoroso e la terra fu squassata da un tremendo terremoto, sicché tutte si svegliarono di soprassalto, correndo chi da una parte, chi dall’altra verso la nascita. A Er solo fu impedito di bere l’acqua dell’Amelete, sicché egli, all’alba, riaprì gli occhi, ritrovandosi disteso sulla pira.
Come si vede da questo mito fondato su credenze orfico-pitagoriche, solo in due casi il ciclo delle incarnazioni si interrompe definitivamente, e cioè o quando un’anima, giudicata incurabile, viene trattenuta nel Tartaro per scontare un’eterna pena, o quando, divenuta perfetta, può finalmente unirsi alle anime degli eletti nell’Eliso e raggiungere così l’eterna beatitudine. L’anima impura tornerà invece a reincarnarsi, assumendo forme di vita congrue al livello di comprensione della realtà (soprattutto umana) maturato nella vita precedente. In tal modo, ad ogni anima viene offerta la possibilità, in virtù della reincarnazione, di poter accedere a forme di vita via via più inappuntabili sotto l’aspetto morale.

Nelle concezioni orfico-pitagoriche il mondo è strutturato più o meno sul modello di un essere vivente e si organizza progressivamente, sicché il bene vi si attua solo a poco a poco. Non si tratta però di un progresso senza fine, perché questa evoluzione, almeno stando a Filolao, trova il suo compimento nel “grande anno”, per poi ricominciare in modo perfettamente identico. Si immaginava una pluralità di mondi nell’universo, e al centro di questo un misterioso Fuoco chiamato simbolicamente Madre degli dèi, cioè degli astri, o anche Hestia, vale a dire focolare o altare dell’universo, o trono di Zeus. La parte più esterna alla regione dei pianeti e della Terra, immaginata come un involucro, era chiamata Olimpo, e comprendeva il cielo delle stelle fisse, il cui movimento da oriente a occidente sarebbe stato per la prima volta riconosciuto da Pitagora. Si immaginava anche un altro fuoco, opposto a quello centrale, in cui si riteneva che gli elementi esistessero in uno stato purissimo. Al di sotto dell’Olimpo, e quindi del cielo delle stelle fisse, era posto il Cosmos, dove venivano situati i cinque pianeti (Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio), moventisi in senso inverso al cielo delle stelle fisse; infine, il Sole e la Luna, entrambi considerati come grandi lenti (o specchi) che ricevono la loro luce dal Fuoco centrale. Al di sotto dei cinque pianeti era situato l’Ouranos, ossia la regione sublunare e circumterrestre, ritenuta il luogo del divenire disordinato e dell’imperfezione. In questa concezione la Terra, sferica come tutti gli astri, non si trova al centro dell’universo, ma si muove intorno al Fuoco centrale come i pianeti. Tra il Fuoco centrale e la Terra, su un’orbita minore, e posto sempre dalla parte dell’altro emisfero terrestre, che si riteneva invisibile e disabitato, i Pitagorici ponevano un’Antiterra, la cui esistenza completava la serie decadica dei corpi celesti.
Per la sua perfezione, l’universo veniva considerato come un organismo razionale retto da leggi divine, la cui mirabile armonia doveva essere per l’uomo modello di suprema perfezione da imitare. Per questo motivo, secondo Platone, lo stato degli uomini può essere concepito come un riflesso di tale ordine, ma bisogna che vi si tenda con impegno. L’ordine cosmico, che è provvidenziale per l’umanità, si trova infatti alla base della teologia astrale del filosofo di Atene, per il quale il pensiero umano deve essere capace di tradursi in un programma coerente e duraturo che consenta di portare nella tormentata città degli uomini la misura e l’armonia dei cieli.
Infine nel Fedro, Platone, sempre facendo parlare Socrate, e servendosi ancora di un mito  questa volta quello della biga alata , descrive la struttura funzionale dell’anima immortale, nella quale distingue una componente impulsiva, determinata ad agire sotto la spinta dell’istinto, una componente concupiscibile o passionale, determinata ad agire dalla sensibilità, e una componente intellettiva, per sua natura più nobile ed elevata delle altre in virtù della sua capacità di astrazione, la quale deve prevalere sulle prime due per indirizzarle nella direzione della conoscenza e della giustizia.

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3 risposte a 4_Vita, Amore e Morte nei miti greco-italici / L’ORFISMO

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