6_Vita, Amore e Morte nei miti greco-italici / EROS E THANATOS

Ciro A. R. Abilitato

già pubblicato in questo sito il 26-05-2011

EROS E THANATOS

Di Tanatos non si può certo parlare con disinvoltura. Non è infatti un’energia vitale, ma una non-vita, un’ombra, e in quanto tale è la negazione del luminoso Eros e di ogni forza vitale. Per questa ragione perfino i miti sono assai parchi nel nominarlo, sebbene la morte non sia affatto infrequente nelle leggende così come nella realtà.
Nell’Iliade Tànato è presentato come il fratello gemello di Ìpno (il Sonno), e questa genealogia è ripresa da Esiodo, il quale fa dei due geni i figli di Èrebo (la Tenebra infernale) e di Nyx (la Notte), o di Èrebo e di Astrèa (la Punizione). Thànatos era la personificazione della morte e veniva rappresentato come un nero fanciullo portato dalla Notte tra le sue braccia, oppure come un demone barbuto e alato che reggeva una fiaccola spenta. Di lui si diceva che avesse il cuore di ferro e i visceri di bronzo, e che perciò fosse totalmente insensibile alle preghiere. Su questo spirito sinistro non ci sono che due strani racconti popolari al di fuori di ogni sistema mitico. Uno è un episodio della storia di Admèto, in cui Tanato, dopo aver sostenuto un duro combattimento con Èracle, è costretto a riconsegnare all’eroe la giovane Alcèsti, che era stata disposta a morire al posto dell’amato. Questa storia fu rappresentata dal poeta tragico Frinico nella sua Alcesti, opera oggi perduta, ma venne riproposta da Euripide in un’opera dallo stesso titolo. L’altro aneddoto si inserisce talvolta nella leggenda di Sìsifo a proposito della disavventura in cui questo astutissimo mortale incorse a causa del suo comportamento irriguardoso verso il padre degli dèi.
Secondo la leggenda, Admèto era figlio di Periclìmene e di Fère della stirpe degli Eolidi, re dell’omonima città della Tessaglia. Da giovane aveva partecipato alla spedizione degli Argonauti e alla caccia al cinghiale Calidonio; poi, morto il padre, gli era succeduto nel regno. La leggenda vuole che avesse accolto al suo servizio Apollo, il quale, obbligato da Zeus a servire per un anno un mortale, gli fece da bovaro. Admèto si innamorò della giovane Alcèsti, una delle quattro figlie del re di Iolco. La ragazza non era solo straordinariamente bella, ma anche dotata di una eccezionale bontà d’animo e di una grande pietà filiale, tanto che, diversamente dalle sue sorelle, che avevano creduto alla perfida Medèa, si era rifiutata di tagliare a pezzi il padre e di bollirlo, come le era stato prescritto nel tentativo di ridargli la giovinezza. Admèto vedeva però irrealizzabile il suo proposito di sposare Alcesti, figlia di Pèlia e Anassìbia, in quanto il padre della ragazza aveva stabilito che avrebbe concesso la mano della figlia solo all’uomo che fosse venuto a lui su un carro trainato da un leone e da un cinghiale legati allo stesso giogo. Apollo, allora, riconoscente per il buon trattamento ricevuto quando era stato schiavo presso di lui, e avendo un debole per Admeto, gli fornì il leone e il cinghiale da aggiogare al cocchio, mettendo così il giovane nella condizione di poter soddisfare le richieste di Pelia e ottenere da questi il consenso a prenderne in sposa la figlia Alcesti. Le nozze furono dunque fissate, ma durante la cerimonia nuziale Admeto dimenticò di sacrificare ad Artemide, che irritata riempì di serpenti la camera degli sposi. Apollo intervenne di nuovo, e promise al suo protetto che avrebbe interceduto presso la sorella al fine di placarne la collera. Nello stesso tempo, per evitare che Admeto morisse, ubriacò i Fati, che cominciarono a far morire la gente a casaccio, e chiese alle Moire il favore di non porre termine alla vita di Admeto nel giorno fissato dalla Sorte. Il favore gli venne accordato, ma a patto che nel giorno fissato per la morte del giovane, qualcun altro si fosse mostrato disposto a morire spontaneamente al suo posto. Il giorno stabilito giunse, e di tutti coloro che Apollo aveva interpellato, nessuno se l’era sentita di sacrificarsi per il sovrano; solo Alcesti, richiesta a sua volta, fu pronta a rinunciare alla propria vita per prolungare quella del marito. Così, secondo quanto era stato stabilito con la promessa fatta da Apollo alle Moire, Tanato scese a prendere la giovane Alcesti per condurla nell’Ade. Avvenne però che proprio quel giorno Eracle, che era stato compagno di Admeto nella spedizione degli Argonauti, trovandosi a passare per Fere, e vedendo che la città era in lutto e che nel palazzo la gente piangeva e si lamentava, ne chiedesse il motivo ai popolani. Informato del fatto che proprio quel giorno la regina era morta, senza indugio Eracle decise di scendere nell’Ade per cercare di restituire alla vita e ad Admeto la bella Alcesti. Giunto negli Inferi, Eracle intraprese una dura lotta contro Tanato, costringendo il demone a riconsegnargli la moglie del suo compagno, la quale poté così essere ricondotta a Fere più giovane e più bella che mai. Nel suo dramma, intitolato Alcesti, Euripide segue questa versione della leggenda, mentre secondo un’altra tradizione, Persèfone, rimasta ammirata dalla generosità e dal senso di abnegazione della giovane sposa, che per amore del marito non aveva esitato a rinunciare alla sua stessa vita, volle rimandarla alla luce. Admeto e Alcesti poterono così ricongiungersi e dalla loro unione nacquero Eumèlo, Perìmele e Ippàso.

L’altra leggenda in cui Tanato interviene è quella di Sìsifo, figlio di Enàrete e di Èolo, il capostipite della stirpe degli Èoli. Sìsifo è il più astuto degli uomini, un imbroglione di prima categoria, scaltrissimo e privo di scrupoli, che con ogni mezzo lecito e illecito è riuscito ad estendere il territorio di Corinto e ad accrescere la propria ricchezza. Correva anche voce, fra l’altro, che questo re, portato a trarre da ogni circostanza il suo esclusivo vantaggio, era giunto a tal punto di crudeltà che per impossessarsi degli averi degli stranieri che arrivavano ai confini del suo reame, soleva depredarli e lasciarli morire sotto cumuli di sassi. Il culmine fu però raggiunto quando Sìsifo si intromise senza rigurado nelle faccende d’amore di Zeus per trarne un profitto personale. Si narra infatti che quando Zeus rapì Ègina, la figlia del dio fluviale Asòpo, nel trascinarla da Fliónte all’isola di Enóne , dove con lei generò Èaco, passò da Corinto e fu visto da Sìsifo, il quale, dopo la tragica morte di Creónte e la fuga precipitosa di Medèa, regnava indisturbato sulla città. Dopo qualche tempo l’Asòpo, che lasciato il suo alveo nella Beozia meridionale stava cercando la figlia dappertutto, si presentò a Sìsifo per chiedergli se sapesse qualcosa di Ègìna. Allora Sìsifo, profittando dell’occasione, che anche questa volta si prestava ad essere volta a suo favore, disse al vecchio dio-fiume che gli avrebbe rivelato il nome del rapitore della figlia se gli avesse reso il favore di provvedere di una sorgente la cittadella di Corinto. L’Asòpo acconsentì, e fece scaturire nella fortezza della città la fonte Pirène. Sìsifo gli disse allora chi era stato a rapire la figlia. Allorché Zeus venne a sapere di essere stato scoperto e che a denunciarlo al padre della fanciulla era stato lo stesso re di Corinto, stanco dell’empietà di quel mortale, lo fulminò immediatamente e lo precipitò negli Inferi, dove gli venne imposta la pena di sospingere senza sosta, lungo la ripida erta di un monte dalla cima aguzza, un enorme macigno, che una volta portato alla sommità di nuovo rotolava in basso. Sìsifo era così costretto a ricominciare da capo l’estenuante fatica e a sostenerla senza sosta per l’eternità. Con un tremendo colpo di folgore Zeus colpì anche l’Asòpo per avere osato contrastarlo, costringendolo a rientrare nei suoi argini e a non travalicarli più, sicché il fiume rimase per sempre nel suo alveo, che ancora oggi, a prova di quella punizione, reca sul fondo tracce di carbone.

Secondo un’altra versione della leggenda, Zeus diede ordine a Tanato di andare a prendere l’infame delatore e di consegnarlo ad Ade per l’opportuno trattamento. L’astuto Sìsifo, che si aspettava qualcosa di spiacevole come conseguenza del suo incauto comportamento, si era però preparato, e passando al contrattacco, non appena si vide in pericolo, riuscì a sorprendere il terribile demone e ad incatenarlo. Scansata la morte, Sìsifo continuò a vivere indisturbato, ma Zeus, vedendo che da qualche tempo sulla terra nessun uomo più moriva, si vide costretto ad indagare intorno a quei fatti e ad intervenire personalmente al fine di ristabilire l’ordine naturale delle cose. Una volta scoperto che quel fenomeno era da imputarsi a un’altra trovata di Sìsifo, mandò Ares ad imprigionare il temerario, e a furia di minacce lo obbligò a rivelare dove teneva nascosto Tanato e a liberarlo. Naturalmente, una volta liberato, il diligentissimo demone poté subito ritornare ai suoi compiti, e poiché rimaneva ancora una piccola questione in sospeso con quell’uomo che lo aveva incatenato, scelse proprio lui come sua prima vittima. Sìsifo si era tuttavia preparato anche a questa evenienza, e prima di essere portato nell’Ade da Tanato, aveva preso a parte la moglie Mèrope ingiungendole di non rendergli gli onori funebri e di tenere il segreto su questo suo ordine. Arrivato poi nell’oltretomba e interrogato da Ade circa il motivo per cui non vi giungeva nella maniera ordinaria, Sìsifo si lagnò a gran voce dell’empietà della sua donna, gemendo e gettandosi per terra, perché la mancanza di una sepoltura gli impediva un degno soggiorno nel regno dei morti. Ade e Persefone, indignati dal comportamento di una simile donna, acconsentirono alla richiesta di Sìsifo di poter ritornare sulla terra a rimproverare e castigare la consorte come meritava al fine di ricordarle i suoi sacrosanti doveri. Naturalmente, una volta risuscitato, Sìsifo si guardò bene dal richiamare e punire la sua complice, e tanto meno si diede la pena di ridiscendere agli Inferi, sicché visse fino a tardissima età. Tuttavia, quando poi morì  e questa volta davvero, giacché vennero ad esaurirsi i suoi giorni , gli dèi infernali, che ancora lo stavano aspettando, se lo videro riconsegnare da Ermes in persona, con molte raccomandazioni di stare attenti a non lasciarselo sfuggire di nuovo. Pertanto, per impedirgli altri imbrogli, gli dèi infernali gli riservarono un trattamento coi fiocchi, che poi fu l’occupazione che sappiamo, il cui scopo, al fine di evitare un’altra evasione di Sìsifo dal Tartaro, era proprio quello di non lasciargli la minima possibilità di riposo, e perciò nessuna opportunità di escogitare alcunché per tutta l’eternità a venire.
Il motivo per cui Thanatos è poco nominato nelle leggende è da ricercarsi nel fatto che, in pratica, si tratta di un non-essere. Diversamente da Eros, che è una forza naturale positiva, Tanato è un demone negativo; non altro che un’intrusione del Non-Essere nell’Essere. Nella mentalità greca, la realtà fisica è il prodotto della mescolanza e della lotta tra l’Essere e il Non-Essere. Sia nel pitagorismo che in Parmenide l’Essere è finito, cioè limitato, in quanto la finitudine è considerata la prerogativa fondamentale di ciò che è compiuto e perfetto. Di contro, il Non-Essere è imperfetto, in quanto illimitata mancanza di tutto. Così, tutto ciò che esiste è l’Essere, che non potendo nascere dal Non-Essere né dissolversi nel nulla, è ingenerato e imperituro. Esso è eterno, immutabile, immobile, unico, indivisibile, omogeneo e finito. Il che significa che per l’Essere, nella sua forma pura, non esiste né passato né futuro, perché altrimenti si dovrebbe ammettere che esso sia e non sia, per cui tanto il cambiamento quanto la molteplicità gli sono estranei: la sua eternità è al di fuori dello spazio e del tempo. Si tratta perciò di una realtà necessaria che non può non essere o essere diversa da quel che è. E poiché nell’Essere non c’è divenire né tempo, esso si trova in un eterno presente. Così concepito da Parmenide, l’Essere viene a coincidere con un principio metafisico o una Ragione trascendente i cui tratti fondamentali sono quelli che in seguito verranno attribuiti all’Assoluto. Ad esso si contrappone il Non-Essere, ossia il nulla, che semplicemente non è. D’altra parte l’Essere ha anche una sua esistenza materiale o fenomenica che fu immaginata come un fuoco nella notte da cui ha origine l’universo. È una forma di esistenza che concede qualcosa al nulla e che perciò è più instabile e imperfetta nelle sue determinazioni particolari; tuttavia è proprio in virtù di questa imperfezione che può prendere forma il mondo in cui viviamo, caratterizzato dallo spazio, dal tempo, dal molteplice, dal movimento e dalla mutevolezza; un mondo in cui trova posto il divenire e dove gli esseri nascono e muoiono. Anche in questa realtà l’essere è sempre quel che è, e rimane intatto nella sua totalità, giacché non nasce né perisce. Dice infatti Parmenide: «o che si rappresenti l’Essere disperso e sparpagliato, oppure raccolto e ordinato in un mondo, mai distaccherai l’Essere dalla sua connessione con l’Essere» (fr. 2).

Come Eros, Thanatos non è dunque che una legge di natura. Il dinamismo dell’essere e la caducità degli esseri particolari non sono che il modo in cui l’essere supera l’imperfezione imposta dalla materialità. Tutto ciò che in un determinato momento appare per poi, in un momento successivo, trasformarsi in altra cosa, non è l’Essere nella sua forma pura, ma un’illusione creata dalla stesso Essere in lotta con il Non-Essere, mentre l’idea, che è nell’Essere, continua ad esistere senza alterazioni. Allorché si dice che la vita è un continuo morire e nascere, e che il seme deve morire per dare l’albero, così come l’albero muore nel frutto e che il frutto muore nel seme, si intende esattamente questo, e cioè che l’Essere vero si trova dietro il fenomeno, che è apparenza. La molteplicità e il divenire non sono quindi che illusione, perché ciò che solo esiste è l’Essere, principio ideale e perfetto del tutto, mentre la realtà, così come noi la conosciamo, è sempre una mescolanza di Essere e di Non-Essere. Conseguentemente la morte, intesa come annientamento dell’essere, non esiste; essa è un ritornare all’essere o un vivere in altro luogo o in altra forma, perché l’essere vero è altrove, là ove lo coglie la ragione. Questa linea di pensiero è sostenuta chiaramente da Eràclito e da Parmenide, entrambi vissuti tra il VI e il V secolo a.C., delle cui dottrine ci occuperemo più avanti. Se l’Essere non concedesse qualcosa all’imperfezione, nessuna cosa potrebbe avere uno svolgimento e niente esisterebbe all’infuori dell’Essere nella sua forma pura, raccolta in se stessa, immutevole, omogenea e perfetta. Difatti, tutto ciò che l’Essere realizza in sé per attuarsi materialmente trova il suo preciso fine nel garantire la continuità della sua esistenza fisica attraverso le sue particolari determinazioni.
Ypnos, il dio greco del sonno, ritenuto il figlio dell’Èrebo e della Notte (o di Astrèa), si colloca invece tra la vita e la morte, la quale, come detto, non è da considerarsi un annientamento della persona, bensì come il trasferirsi dell’anima in un altro luogo o il suo permanere nel mondo libera dal corpo. Il sonno è perciò ritenuto un momentaneo morire, un transitorio trasferirsi altrove dell’anima. Ipno è fratello gemello di Tànato e padre di Morfèo, di Fàntaso e di Fobètore (Icelo).
Omero pone la dimora di Ipno nell’isola di Lemno, ma più tardi la sua sede venne collocata nell’Oltretomba, come riporta Virgilio, o nel paese dei Cimmeri, come invece narra Ovidio, che fornisce un’estesa descrizione del suo palazzo incantato, dove tutto tace e dorme. Lo si rappresenta spesso alato, mentre sorvola velocemente la terra e il mare facendo assopire gli esseri per mezzo dei papaveri e di una speciale verga da cui pendono lunghi lacci o le maglie di un fitto reticcio. Ipno non è solo e semplicemente il dio del sonno ristoratore, ma una divinità potente e temibile. Su ogni essere animato, su tutto ciò che vive e si muove, sullo spirito più agile e sul pensiero più rapido egli getta le sue magiche reti paralizzanti, simili a quelle invisibili che il suo gemello Tanatos getta sui mortali. Tutto si arresta al suo passaggio o al suo solo desiderarlo e nulla può più continuare a muoversi. Gli stessi dèi non possono nulla contro il potere paralizzante di Ipno. Presi nelle sue reti, la loro vivacità si spegne, la loro vigilanza si eclissa, i loro pensieri si offuscano ed essi precipitano in uno stato di torpore o di sonno profondo per tutto il tempo voluto da Ipno, e in questo stato essi sono vulnerabili. Non a caso nell’Iliade, Ipno può fieramente dichiarare che è facile per lui precipitare nel sonno tutti gli dèi immortali, compresa la corrente circolare e infaticabile di Oceano, che è il padre da cui tutti gli esseri sono stati generati. Su una sola divinità, la cui mètis non conosce riposo né debolezza, il suo potere non può nulla. Tale divinità è Zeus figlio di Crono, che non può esse accostato né addormentato da Ipno se non è lui stesso ad ordinarglielo. Crono invece, il più giovane dei Titàni, per quanto astuto e potente, è vinto dal potere legante del sonno, e in tale stato è messo in catene dal figlio e scacciato dal trono. Egli conduce ormai un’esistenza che non è altro che l’ombra di quella di un dio. Là dove è stato relegato egli trascorre infatti il suo tempo a dormire.

22_il nome Peithō è infatti perlopiù usato con valore di epiteto.

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