5_Vita, Amore e Morte nei miti greco-italici / AMORE E PSICHE

Ciro A. R. Abilitato

già pubblicato in questo sito il 26-05-2011

AMORE E PSICHE

Èros è la personificazione della forza attrattiva della natura che presiede all’unione degli elementi e degli esseri fra di loro, e che perciò assicura la coesione dell’universo e la perpetuità delle specie. Per questo motivo, nella sfera umana, è per i Greci anche il dio dell’attrazione amorosa, corrispondente al dio che i Romani chiamavano Amore o Cupìdo. La personalità di questa divinità è molto complessa, e si è notevolmente evoluta dall’epoca arcaica fino all’età alessandrina e romana. Le più antiche cosmogonie lo fanno un essere uscito direttamente dal Caos primigenio, subito dopo o contemporaneamente a Gea, la Terra. Dopo di lui il Caos dà Erebo (le Tenebre infernali) e Nyx (la Notte). In origine Eros veniva identificato con una pietra grezza, presumibilmente un meteorite, e sotto tale forma era oggetto di particolare devozione a Tèspie, città della Beozia ai piedi dell’Elicona, in cui sorgeva un famoso tempio con statue di Prassitele e Lisippo, e dove si celebravano in suo onore, ogni cinque anni, le Erotidie, feste sacre con gare ginniche e musicali; ma il culto di Eros era diffuso in tutto il mondo ellenico, con centri a Pario, Mègara, Sparta, Samo e Creta.
Un’altra versione della leggenda lo fa nascrere dall’Uovo primordiale generato dalla Notte, il quale, dividendosi in due metà, forma con una di esse la Terra e con l’altra il Cielo, il quale sta sopra la prima e come un coperchio la ricopre. Dalla fusione di questi racconti leggendari, Eros è spesso anche indicato come il figlio del Caos e della Notte, ma non mancano altre varianti della leggenda che lo fanno il figlio del Cielo e della Terra.

Come potenza primordiale Eros era sovente venerato in forma di feticcio, ma via via, nella sfera umana, acquistò una sua propria personalità, soprattutto ad opera degli autori di cosmogonie, di scrittori e di poeti, che riprendendo credenze popolari ne fecero il dio dell’amore puro e semplice. Eros cominciò così ad essere immaginato come il più giovane degli dèi, rappresentato come un bellissimo fanciullo, quasi sempre alato, con in mano una fiaccola, ma più spesso munito di un arco e di una faretra piena di dardi d’oro. È il divino fanciullo che fa innamorare coloro che sono infiammati dal suo fuoco; colui che porta scompiglio nei cuori e che fa ardere di passione chi è toccato dalla fiamma della sua torcia o colpito dalle sue roventi e infallibili frecce. Il dio, infatti, si compiace di colpire con i suoi strali tanto i mortali quanto gli stessi dèi, provocando piaghe dolorosissime e lente a guarire. Eros è un dio eternamente bambino, da tutti amato, ma anche temuto.
Trasportato quindi nell’ambito della realtà umana e assunta la fisionomia tradizionale, Eros, pur restando una forza fondamentale della natura, è immaginato ora come il figlio di Ilizìa , o di Ìride , ora come il figlio di Zeus e di Dióne , o di Èrmes e di Artèmide , oppure di Ermes e di Afrodìte . Le ultime due genealogie sono quelle che la tradizione propone con maggiore frequenza, delle quali l’ultima risulta la più diffusa. Tuttavia, anche tra queste i mitografi distinguono diversi Eros, come l’Eros figlio di Ermes e di Artemide Ctonia (“infernale”) ; l’Eros figlio di Ermes e dell’Afrodite Urania (“celeste”); l’Eros Contrario o Breve, chiamato Àntero, nato da Ares e da Afrodite; e l’Eros figlio di Zeus e di Persefone, il quale, in particolare, sarebbe il paffuto dio alato raffigurato dagli scultori e dai pittori e caro ai poeti. Come si vede, nel mito le genealogie di Eros sono moltissime, quasi a sottolineare la grande varietà dei tipi e delle sfumature dell’Amore.

Comunque sia, più che come una potente divinità olimpica, Platone descrive Eros come un dèmone irrequieto, astuto, ingegnoso, sempre inappagato e perciò alla continua ricerca di qualcosa. Infatti, nel Simposio, un dialogo che ha per tema l’amore, Socrate, invitato dagli altri commensali a parlare, riferisce il discorso che un tempo gli fece Diotìma, una sacerdotessa di Mantinea, sua iniziatrice. A dire di questa sapientissima donna, Amore non è bello né buono, ma non per questo è da considerarsi brutto o cattivo, dovendosi piuttosto riguardare come un qualcosa di mezzo tra il bello e il brutto, tra il buono e il cattivo, tra la conoscenza e l’ignoranza, tra il giusto e l’ingiusto, tra il mortale e l’immortale. Per tal motivo egli non è altro che “un gran demone”. Se non fosse così ogni cosa rimarrebbe separata, mentre Amore è quel demone che si pone in mezzo a due cose che appaiono opposte e inconciliabili, perché egli, mancando un po’ dell’una e un po’ dell’altra, cerca di colmare questo vuoto facendole congiungere. L’amore spinge perciò alla completezza, ma una volta che sia riuscito nel suo intento, ritorna a sentirsi insoddisfatto. Questo accade perché nel nostro mondo terreno le idee, che sono perfette, sono solo parzialmente realizzate, solo ombre della vera perfezione, e questo fa sì che ogni cosa terrena sia imperfetta. Di conseguenza, se l’idea del bello è la completezza assoluta, l’idea del brutto è l’assoluta incompletezza, cioè un qualcosa che manca di tutto, e perciò non altro che il nulla. Il concetto di brutto, che in sé comprende quelli di ingiusto, di imperfetto, di incompleto, di falso ecc., è negativo, riguarda una mancanza, cioè qualcosa che non c’è, che non appartiene all’essere ma al non-essere. Soltanto in questo senso esiste l’idea del brutto. Pertanto, nel nostro mondo terreno, il brutto non è qualcosa che esiste in sé, ma solo la mancanza del bello, e questa mancanza di bello spiega l’imperfezione del mondo materiale, sicché ciò che non appare bello, appare brutto. Ma se una cosa appare brutta, è perché chi la giudica possiede una certa conoscenza del bello che lo pone nella condizione di sapere quando una cosa ne è mancante. Qualsiasi cosa, nel nostro mondo, non può perciò essere totalmente brutta, altrimenti non esisterebbe, ma solo relativamente brutta. Per questo Diotìma dice a Socrate: «Non penserai mica che quel che non è bello debba per forza essere brutto?». E allora, a questo punto, cos’è Amore se non una forza incredibile, un demone che fa da intermediario fra gli dèi e gli uomini. La sacerdotessa, richiamandosi ad un antichissimo mito, narra che fu concepito da Penìa, “la Povertà”, che si unì a Pòro, che è “l’Abbondanza” o anche “l’Espediente”. Essi si unirono nel giardino degli dèi, dopo un grande festino tenutosi in occasione del genetliaco di Afrodite, al quale erano state invitate tutte le divinità.

Socrate, dunque, espone a tutti coloro che sono stati invitati nella casa di Agatone, il mito della nascita di Eros narratogli da Diotìma: «Pòro, si trovava fra gli dèi che si erano radunati per il banchetto, in quanto figlio di Mètide (la prudenza astuta). Alla fine del banchetto, Penìa si presentò a mendicare sulla porta, mentre Pòro, ebbro di nettare (il vino non era ancora conosciuto!) e appesantito dal cibo, uscì nel giardino e si addormentò. Penìa, che a causa della sua povertà voleva ella pure essere riempita, vedendolo, lo seguì e si distese accanto a lui, sicché rimase incinta di Amore». Questo mito della nascita di Eros spiega dunque non solo come il dio venisse generato, ma anche il suo carattere. Pur avendo una sua propria personalità, egli tuttavia possiede sempre qualcosa del padre e della madre. Dalla Povertà, che non ha neanche genitori, egli ha ereditato l’eterna insoddisfazione, per cui è sempre alla ricerca di ciò di cui manca; mentre dall’Abbondanza ha ereditato la completezza, per cui ciò di cui manca non è menomazione: ciò che ha, lo fa un essere del tutto completo. Il carattere distintivo e proprio di Eros è dunque che egli è una la forza catalizzatrice di unioni. Eros è allora l’intermediario tra il pieno e il vuoto, il tutto e il niente, l’umano e il divino.
Penìa, etimologicamente, è “la penuria, la mancanza, la povertà, l’indigenza, il bisogno”. Da questa parola deriva anche Pènes, che etimologicamente significa “povero, indigente, che manca di tutto”; anzi propriamente significa “che lavora per vivere”; infatti penes àporos significa “povero senza entrate, nullatenente”. Dunque, l’organo sessuale maschile, per sua forma e costituzione, è di per se stesso espressione di tutto ciò di cui manca, e questo suo limite consiste nell’essere separato da ciò che deve contenerlo: è il pieno mancante del vuoto.
Pòros significa invece “apertura, meato, passaggio, condotto, canale, via”, e in quanto tale è sempre ciò che dà passaggio, che collega, che è atto ad accogliere, o che tiene, che trattiene, che stringe, e perciò è “la via o il mezzo di entrata” e quindi anche “il mezzo, l’espediente, la risorsa”, da cui “entrata, rendita, risorsa, frutto, provento, reddito”. Di conseguenza, l’organo sessuale femminile è esso pure, per sua forma e costituzione, espressione di tutto ciò di cui manca, e questo suo limite consiste nell’essere separato da ciò che lo deve riempire: è il vuoto mancante del pieno. Pieno e vuoto sono dunque due realtà incomplete e complementari. Esse rimarrebbero separate se la loro congiunzione non fosse resa possibile da Eros, il quale, nella realtà umana, entra in intima relazione con Psiche. Ma nel racconto di Diotìma, Pòro, “l’Espediente dalla pancia piena”, è sì il nome del maschio, ma anche l’attributo e la condizione della femmina; e Penìa, “la Mancanza dalla pancia vuota”, è sì il nome della femmina, ma anche l’attributo e la condizione del maschio. Ogni essere nell’universo è in sé completo e incompleto, sicché la natura maschile ha in sé parte di quella femminile e la femminile parte di quella maschile, ed entrambe hanno necessità l’una dell’altra per completarsi di ciò che mancano. Eros non solo è una forza primordiale, ma anche una forza fondamentale della natura, la cui azione deve estendersi su tutto al fine di garantire l’unità dell’essere.

A tal proposito bisogna considerare che il Caos primigenio possiede una grande potenzialità autogenerativa, la quale si riduce progressivamente fin quasi ad estinguersi nelle generazioni divine successive. Questa evoluzione comporta il differenziamento delle divinità in maschili e femminili, che è già completo negli dèi olimpici, per i quali la capacità generativa è garantita solo per mezzo dell’unione dei due sessi. In rarissimi casi, come in Zeus che partorisce Atena dal suo cervello, permane in forma residuale la primitiva capacità autogenerativa del Caos, il quale non è dunque il vuoto, ma un ente indifferenziato che rappresenta la primissima forma fisica dell’essere. Eros viene dunque direttamente fuori dal Caos come forza catalizzatrice di interazioni, come principio di coesione. È un’energia, il cui compito è quello di favorire le interazioni tra le parti del tutto, il quale può tendere così alla sua ideale perfezione. Trasportato nella realtà umana, questo principio fisico diviene un genio alato, dunque non più solo la forza catalizzatrice dell’unione amorosa, ma la forza che interviene in tutte le attività creative. «Secondo l’indole della madre  dice Diotìma , Eros è povero, delicato, brutto, sudicio, scalzo, senza casa, sempre nudo per terra, ignorante, dorme sotto il cielo e i portici, e vive per le strade, perché la natura della madre si trova a convivere sempre con l’indigenza; secondo l’indole del padre, invece, insidia sempre chi è bello, chi è buono, chi sa, chi ha; è coraggioso, protervo, caparbio, cacciatore terribile, sempre a macchinare qualche insidia, desideroso di capire, scaltro, speculatore, imbroglione, maliardo e sofista. Per natura non è né mortale né immortale, e talora nello stesso giorno fiorisce e muore, ma così come muore risuscita, e questo proprio per la natura del padre»; e ancora: «Nessuno degli dèi desidera essere sapiente: lo è già! Né d’altra parte gli ignoranti desiderano sapere e fare scienza, in quanto, non sapendo di cosa mancano, si appagano di quanto è alla loro portata, e non desiderano altro. La scienza si colloca sempre in mezzo a questi due gruppi, tra i quali si trova anche Amore», così dice Diotìma. La forza attrattiva dell’Amore agisce a qualsiasi livello della raltà naturale, dalle cose più elementari alle più complesse, ma essa non si esaurisce nella realtà materiale, giacché è anche la causa di quella potenza che si esprime con la vita e il pensiero, che sono i prodotti della capacità evolutiva della realtà naturale. Dunque, dai livelli più fondamentali, la perfezione dell’essere si manifesta di gradino in gradino fino ai livelli più alti grazie a questa grande forza.
Nel Simposio Pausania chiarisce anche che esistono molti tipi di Amore. Infatti, così come esiste un’Afrodite Urania (“celeste, spirituale”), senza genitori, e un’Afrodite Pandèmia (“popolare, terrena”), figlia di Zeus e Dióne, così esiste anche un Amore Uranio (“puro, spirituale”) e un Amore Pandèmio (“comune, volgare”). Naturalmente, la differenza tra i due è che mentre il primo, che si accompagna sempre alla madre, trascende la realtà corporale per farsi stimolatore di un elevato sentire, il secondo è più orientato verso il concreto e il corporeo. In entrambi i casi si tratta sempre di una forza attrattiva, divina, sacra, ma chi è oggetto del primo tipo d’amore è indotto a contraccambiarlo, perché è la forza più pura e irresistibile che si conosca. Un altro convitato, il medico Erissìmaco, aggiunge che è vero, che bisogna fare distinzione tra l’Amore della Musa Urania, che è sentimento sublime, e quello di Polìnnia, più materiale, ma è anche necessario che questi due tipi di amore trovino nell’uomo il giusto equilibrio, perché entrambi sussistono. Un amore equilibrato genera armonia e introduce un’adeguata misura tra i desideri della carne e quelli dello spirito, portando prosperità e salute agli uomini. Amore è quindi soprattutto qualcosa di armonico e di equilibrato, e soltanto l’amore equilibrato e contraccambiato è produttore di benessere.

Dal suo canto Aristofane, smettendo di ridere a causa di un fastidioso singhiozzo che gli era venuto all’improvviso, ma che fortunatamente gli era passato con uno dei rimedi suggeritigli da Erissimaco, tenta di spiegare con un racconto favoloso il motivo per cui l’Amore sia inappagabile aspirazione all’intero. A giustificazione di questa sua affermazione, Aristofane dice che all’inizio del mondo la stirpe umana si divideva in tre generi, non in due come oggi: c’era il maschile, il femminile e l’androgino, il quale ultimo partecipava di entrambi i generi ed aveva perciò un organo maschile e uno femminile. Dell’androgino resta oggi soltanto il nome, che è perlopiù usato per ingiuriare. La forma di ogni essere umano era rotonda, con quattro mani, quattro gambe, due volti su una testa sola, e su di essa quattro orecchie, due organi genitali e tutto il resto come si può immaginare da questo. Naturalmente, quelli che non erano androgini avevano due organi genitali uguali. Tutti camminavano eretti, ma quando dovevano correre, facevano capriole come i saltimbanchi, in quanto, così facendo, essi potevano far leva su tutti gli otto arti e muoversi velocemente come ruote. Erano fatti così perché i maschi avevano tratto la loro origine dal sole, le femmine dalla terra, ma sia gli uni che le altre avevano in comune una parte che veniva loro dalla luna, giacché anche questa consta di due parti di genere diverso. Erano vigorosissimi e terribili: a nove anni raggiungevano una larghezza di circa nove cubiti (circa 4 metri) e un’altezza di nove braccia (più di 16 metri). Ne furono esempi i figli di Aloèo e Ifimedìa, i gemelli Efiàlte e Òto. Come narra Omero dal verso 305 al 320 del libro XI dell’Odissea, Ulisse vide la madre di questi esseri nell’Ade, dopo aver conosciuto la sua sorte da Tiresia. Gli Alòadi, sovrapponendo il monte Ossa all’Olimpo e il Pelio all’Ossa, tentarono di dare la scalata al cielo, e vi sarebbero riusciti se non fossero stati troppo giovani e se non li avesse uccisi per tempo Apollo. Pertanto, poiché i primi uomini erano così forti e tracotanti, Zeus si vide costretto a tagliarli a metà al fine di indebolirli e renderli più docili; ed era intenzionato a dividerli ancora, se non si fossero dati una calmata. Da questa divisione sorse comunque in ciascuna delle parti separate il desiderio di ritornare al primitivo stato congiunto. Per questo gli esseri umani si cercano e si desiderano secondo i gusti più diversi: gli eterosessuali non sarebbero che le due metà in cui venne diviso l’antico androgino, gli omosessuali gli altri. Ad ogni modo, dice Aristofane, è tale questa forza e questo desiderio di completarsi, che chiunque venga ad imbattersi in qualcuno che sente come la sua metà, entrambi restano colpiti e stringono amicizia. Gli individui sono dunque massimamente felici se, assecondando l’istinto lasciato in ciascuno intatto dall’antica natura, possono riunirsi con quelli che gli sono più affini. Ciò è comprovato anche dal fatto che una volta che due individui che siano fatti l’uno per l’altro si incontrano, essi non desiderano altro che fondersi, e stretti nell’amplesso, morirebbero di fame e di sete pur di non separarsi, mentre se non è data loro la possibilità di cercarsi, perdono interesse per ogni cosa e diventano abulici. Al contrario, invece, se è data loro la possibilità di cercarsi e di stare insieme, essi sono molto attivi e utili alla società, e una volta incontrato l’affine affronterebbero qualsiasi difficoltà, e darebbero anche la vita, pur di starsene assieme. Ebbene, conclude Aristofane, conviene che gli uomini rispettino gli dèi, se non vogliono correre il rischio di finire segati in mezzo al naso e di essere tagliati ancora una volta in due metà, con una sola gamba e metà di tutto il resto; perciò, se non vogliono essere ridotti a esseri piatti, come i tasselli dei mosaici o come quelle figurine stampate in rilievo sui tesserini di riconoscimento distribuiti ai soci del circolo sportivo, sappino gli uomini mostrarsi umili verso gli dèi.

Nel suo trattato sulla Natura degli Dèi, Cicerone pone a confronto le diverse teorie assiologiche elaborate dai filosofi, addentrandosi nell’analisi dei miti per mostrare come siano superflue e spesso anche fuorvianti quelle sottigliezze che i mitografi hanno tardivamente introdotto intorno alle leggende primitive allo scopo di risolverne le contraddizioni interne e le difficoltà interpretative. Nello stesso scritto egli pone inoltre a confronto i due sistemi filosofici più diffusi nella cultura del suo tempo, l’epicureismo e lo stoicismo, rimproverando al primo di fare degli dèi degli esseri beati e indifferenti al destino degli uomini, e di recidere il rapporto che l’uomo ha con loro, che sono i garanti del suo successo terreno. Al secondo rimprovera invece di conferire al mondo stesso connotati soprannaturali, al punto da fare di tutta la realtà una manifestazione del divino e della provvidenza. Con questa critica Cicerone si pone a difesa della tradizione e del sistema di culto stabilito dagli antenati, che non può essere snaturato dalle sottigliezze dei mitografi e dei filosofi. Ma al di là di questi argomenti a tutela della religione romana, considerata come importante fattore di coesione della società e dello Stato, bisogna riconoscere che la molteplicità e la ricchezza dei racconti leggendari di tutti i popoli, così come la sorprendente varietà delle credenze sorte nell’ambito della cultura greca, hanno effettivamente posto l’uomo dell’antichità davanti allo specchio della sua coscienza e della sua esistenza, spronandolo a ricercare una ragione delle cose e di se stesso. A dimostrazione di ciò sta il fatto che divinità tanto complesse quali Eros e Dioniso dimostrano uno sviluppo di pensiero non solo continuo e libero, ma anche critico e coerente. Eros, pur conservando il suo carattere particolare in tutte le tradizioni, rimane un essere indefinibile. Si trova alla base della realtà fenomenica, la quale si riflette nel pensiero dell’uomo che la rapporta a se stesso. È di conseguenza anche un sentimento, e in quanto tale, a seconda che contrasti o meno i fini coscienti degli uomini, è buono o cattivo, semplice o astuto, volgare o sublime, meschino o sincero. Eros è insomma una potenza inspiegabile e necessaria, e perciò un genio; e sotto questo aspetto un essere amorale: è una forza fondamentale, giovane, cieca; il suo agire non ha come presupposti né memoria né conoscenza, ed è determinato unicamente dal suo puro volere, ma la funzione che svolge nel mondo ha motivi che trascendono la sua volontà.

Gli artisti amano mostrare Eros in compagnia di altri fanciulli divini, i cosiddetti Amorìni o Eròti, intento a giocare con le noci, le equivalenti delle nostre biglie, oppure, come spesso appare nelle pitture pompeiane, indaffarato con i suoi compagni a prendere e a riporre vasetti di essenze, a pestare misture d’erbe nei mortai, a preparare distillati e filtri nella farmacia della Mercantessa d’Amori. Ganimède, il più bello dei fanciulli mortali, divenuto poi l’immortale coppiere di Zeus, è suo compagno in queste faccende e nei giochi, così come sono suoi compagni di gioco il fratello Àntero, con cui spesso si appiglia, e l’altro fratello, Priàpo. Anche con i grandi intraprende lotte scherzose, come con Èracle, che si lascia martoriare e lo fa sempre vincere, o con Pan, che lo diverte moltissimo, o come quando si attacca con Apollo, che lo canzona perché gioca a fare l’arciere. Bisticcia anche con la propria madre, che non di rado si vede costretta a vestirsi di autorità e a castigarlo; ed è il solo che possa contrastare Zeus e uscirne impunito. Ma in fondo Eros non è che un bambino, e tutti sono disposti a rallegrarlo se lo vedono triste, come quando piange per aver raccolto delle rose senza aver fatto caso alle spine. Ma, naturalmente, sotto l’innocente bambino che gioca, che ride, che lotta e che piange, c’è sempre il formidabile dio; e così, colui che tutti disarma col suo sorriso, con i suoi occhietti vispi, con le sue manine paffute, è anche colui che, secondo il suo capriccio, può causare pene terribili. Sua madre, che nutre per lui un affetto smisurato, lo tratta con riguardo e un poco lo teme. Non sia mai che il sorridente fanciullino s’indispettisca e trafigga con le sue frecce un cuore per poi abbandonarlo a se stesso: patimenti strazianti sono i tormenti di chi, mutato in amante, non sia corrisposto dal suo amato. Per questo uomini e dèi gli usano grande riguardo.

Eros entra anche nel corteggio di Dioniso, munito di tirso e di kàntharos, e pur non avendo una sua propria leggenda, è presente in quasi tutti gli episodi mitologici a sfondo amoroso (Teseo e Arianna, Èracle e Ónfale, Enea e Didone, e cos’ via). È raffigurato in pitture parietali e sculture, in decorazioni su vasi e su gemme, in mosaici e in vari tipi di incisioni a rilievo su onice, corniola e sardonica. Entra via via come principale protagonista in scene di vita quotidiana, animando i più svariati aspetti delle attività umane, soprattutto quelle che hanno relazione con gli affetti, la famiglia, il lavoro e l’arte. Il gruppo scultoreo di epoca ellenistica con Psiche ebbe grande rinomanza nel periodo romano, tanto da assumere valore simbolico. Un aspetto particolare di Eros è rappresentato da suo fratello Àntero, che in alcuni casi è la personificazione dell’amore corrisposto, mentre in altri è quella dell’amore di breve durata o, addirittura, dell’amore contrario o contrariato o negato, che può arrivare ad assumere i tratti dell’odio vendicatore generato dall’amore respinto. Come Amore vendicativo le sue frecce, allora, non sono più d’oro ma di piombo; le sue ferite non generano più il patimento d’amore che anela al congiungimento e alla felicità, ma sono ferite traboccanti di dolore e di rancore mortifero, nelle quali è stato inoculato il germe dell’odio che cova e brama la distruzione, l’annientamento, la morte.
Un altro tipo d’amore, anch’esso connesso con la morte, è l’Amore funerario, rappresentato nella forma del genietto alato posto a ornamento delle tombe e dei sarcofagi con la fiaccola rovesciata. È questo il demone personale, il genio familiare che accompagna ciascun individuo lungo tutto l’arco della sua esistenza terrena, dalla culla alla tomba. Non è l’anima della persona, ma il suo demone accompagnatore, e in quanto tale è l’unico testimone della vita interiore e della condotta dell’individuo. Sarà lui lo specchio dell’anima dinanzi al tribunale celeste.
Eros è dunque una forza fondamentale tanto della natura quanto dell’universo umano. Di conseguenza la sua vera lotta non è con i fratelli, con gli dèi e con gli uomini, ma quella che ingaggia con Tanatos, la Morte.

Una delle leggende più celebri nelle quali Eros ha una parte di primo piano è l’avventura romanzesca di Psiche, una storia trattata come un semplice racconto, le cui origini sono probabilmente da ricercare nella tradizione del romanzo antico, ricchissimo di elementi simbolici, e soprattutto nelle fabulae milesiacae.
Psyché è il nome dell’anima, e anche, come riferisce Apuleio nelle Metamorfosi,(4,28-6,24), quello di un’eroina di inimmaginabile bellezza, figlia di un re e di una regina d’un certo paese. Aveva due sorelle maggiori di età, anch’esse bellissime, ma la bellezza di Psiche era davvero sovrumana, tanto che dalle città vicine, dalle regioni confinanti e dalle più lontane province, numerosi forestieri, anche compiendo lunghi viaggi per terra e per mare, venivano ad ammirarla come fosse una dea. La fama della ragazza divenne così grande da toccare isole, contrade e territori lontanissimi, sicché nessuno s’imbarcava più per Pafo, per Cnido e per Citera per onorare Afrodite, i cui templi rimanevano vuoti, sporchi e freddi, perché le cerimonie vi erano trascurate e non vi si compivano più i sacrifici. Tutti, invece, accorrevano a celebrare lo spettacolo del secolo, mettendosi in attesa della giovane per vederla durante la sua passeggiata mattutina, a lei offrendo corone di fiori quando passava per i viali del giardino, rivolgendole preci, richieste di grazie e consacrandole vittime e banchetti. Afrodite, vedendosi così trascurata e offesa, cominciò a covare un forte risentimento nei confronti di quella mortale che le usurpava gli onori divini, e desiderando vendicarsi della sua colpevole bellezza, chiamò a sé quel suo figlio alato che, munito di frecce infuocate, scorrazza di notte per le case guastando tutti i matrimoni e mettendo scompiglio nei cuori, e lo pregò di farle un unico favore superiore a tutti, e cioè di colpire la giovane insolente in modo che fosse presa d’un amore bruciante per un uomo abietto, senza dignità, né beni, né qualità, e così miserabile da non potersene trovare uno simile su tutta la terra.
Intanto Psiche, vergine e bella, piangeva la sua solitudine ed era giunta ad odiare la sua stessa bellezza, perché stanca, ormai, di essere considerata un fenomeno da fiera. Infatti, mentre le sorelle maggiori, mai celebrate dalle folle, erano state già richieste da due re e si erano maritate, lei non riusciva a trovare nessuno che volesse sposarla, in quanto il suo aspetto divino intimoriva nobili e popolani. D’altra parte il padre, disperando di poterla sposare, e sospettando qualche motivo di avversione divina, interrogò l’oracolo di Apollo, chiedendo al dio, con vittime e preghiere, un marito per la vergine rifiutata da tutti. Il dio milesio rispose di agghindare la figlia come per un matrimonio funebre e di esporla su un’alta rupe, dove un mostro orribile, temuto dagli stessi dèi e dallo Stige, sarebbe venuto a prenderla. Dopo questo vaticinio, il re ritornò a casa dolente e disperato, riferendo alla moglie l’ordine ricevuto dal dio. Per giorni la casa del re cadde nel lutto e ovunque si udivano pianti e lamenti, tutta la città piangeva il triste destino della famiglia, ma vennero fatti i preparativi per adempiere il volere del dio. La ragazza fu abbigliata come prescritto, e così ebbero inizio le solennità delle sue nozze funebri. I genitori esitavano a compiere l’orrendo rito, ma la figlia stessa li esortò, dicendo loro che avrebbero dovuto addolorarsi quando il popolo e le folle le rendevano gli onori divini che non meritava, chiamandola novella Venere, perché solo dall’essere stata chiamata così era dipesa la sua sorte sventurata. Dopo queste parole Psiche tacque, si mescolò al popolo che formava il corteo funebre, e al suono delle tibie nuziali che ben presto si tramutò in un lamentoso motivo lidio, fu condotta sulla cima d’una montagna, e lì, esposta sulla roccia più alta, fu lasciata sola. Tutti ritornarono in lacrime e a capo chino in città per chiudersi nelle loro case, e così fecero anche i genitori di Psiche, che nell’oscurità del palazzo continuarono a vivere in una notte senza fine.
La giovane, abbandonata sulla rupe, si lamentava, quando improvvisamente si sentì sollevare da Zefiro, che sostenendola dolcemente la posò sul prato rugiadoso che ricopriva il fondo della valle ai piedi del monte. Qui, stremata da tante emozioni, si addormentò, per ritrovarsi al risveglio nel giardino d’un magnifico palazzo, ricco di marmi e d’avorio, adorno di colonnati d’oro, di pareti finemente cesellate in argento, di imponenti figure di animali e di pavimenti intarsiati di pietre preziose, tanto da non sembrare opera umana, bensì quella di un dio che aveva voluto così provvedersi di una sua dimora terrena. Affascinata da questo spettacolo, Psiche entrò nel palazzo e ne visitò le stanze che le si aprivano dinanzi, accolta da voci che, dichiarando di essere altrettante ancelle al suo servizio, la guidavano dove lei voleva, dicendole di non meravigliarsi del fatto che quelle ricchezze non erano tenute sotto chiave, perché erano tutte per lei.

La giornata trascorse così, di stupore in stupore e di meraviglia in meraviglia. Giunta la sera, Psiche si ritirò nel suo appartamento per dormire, e a notte avanzata avvertì accanto a lei una presenza: era il suo sposo, che raggiuntala sul talamo nuziale le si unì e la rese sua moglie, sparendo poi prima del sorgere del sole. Ella perciò non poté vederlo, e tuttavia non le era sembrato l’orribile mostro che aveva temuto di incontrare. Questa esistenza si protrasse per alcune settimane, e Psiche cominciò a sentirsi felice. Suo marito non le rivelò la propria identità, e l’avvertì che non poteva concederle di vederlo, altrimenti lo avrebbe perduto per sempre. Perciò, di giorno Psiche se ne stava sola nel suo palazzo pieno di voci, le quali si prendevano cura di lei come una dea, e di notte era raggiunta dal suo sposo, che poteva udire e toccare ma non vedere. Intanto i suoi genitori, sempre rinchiusi nel buio palazzo, invecchiavano nel dolore del lutto e non uscivano più alla luce del sole. La voce si sparse, e le sorelle maggiori si precipitarono a consolarli. Lo sposo avvertì Psiche che le sorelle sarebbero presto venute fra quelle rocce a piangerla, ma la esortò a non rispondere ai loro lamenti, perché se si fosse mostrata, ne sarebbe seguita una grande sventura per lei e un indescrivibile dolore per lui. Psiche promise che avrebbe agito secondo il suo volere, ma cominciò man mano a sospirare la famiglia e a compiangere il padre e la madre che, credendola morta, si consumavano nel dolore. Sempre più infelice e disperata, chiese allora allo sposo di poter riabbracciare le care sorelle, e attraverso di loro far sapere di sé ai suoi genitori in lutto, affinché potessero rallegrarsi per la felice sorte della loro figlia più giovane, e invece di piangerla, potessero ritrovare la meritata serenità. Il marito l’avvertì ancora del grave pericolo cui sarebbe andata incontro, ma cedendo alle sue insistenze e ai suoi allettamenti finì per concederle il permesso di rivedere le sorelle, sempre però ammonendola di non lasciarsi convincere dai loro dannosi suggerimenti. Quando le sorelle giunsero alla montagna invocandola e battendosi il petto con animo afflitto, Psiche si mostrò loro, mettendo fine a quei lamenti disperati, e dopo essersi abbracciate con affetto e aver versato abbondanti lacrime di gioia, ordinò a Zefiro di trasportarle nella valle sotto il monte. Il vento allora, sollevandole dalla rupe, le adagiò dolcemente nel giardino del palazzo, e lì giunte, Psiche le invitò ad entrare. Lieta di accogliere le sue sorelle, mostrò loro le grandi ricchezze della sua dimora, le fece servire dall’invisibile schiera delle sue domestiche, le rifocillò lautamente, ordinò a cori che nessuno poteva vedere di intonare per loro i più bei canti, le invitò ad uno splendido bagno, e infine, dopo essersi ancora trattenute piacevolmente insieme, avendole saziate di ogni cosa e caricate di molti doni preziosi, le fece riportare via da Zefiro. Nel far ritorno alle loro case, le sorelle concepirono una forte invidia per Psiche, e non desiderando che si risapesse in giro di come ella fosse stata fortunata, nascosero i regali ricevuti e non passarono per il palazzo dei genitori, i quali furono così lasciati nel pianto all’oscuro di tutto. Scoppianti di bile, esse si lamentavano delle loro sorti, meditando contro Psiche un formidabile inganno, col quale avrebbero privato la sorella di ogni bene pur di prendersi la soddisfazione di vederla precipitata da sì grande altezza nella più squallida miseria. Strette dal mutuo patto, tornarono al monte altre volte, e sicure che Zefiro le avrebbe sostenute, come di fatto avveniva, si gettavano dalla rupe e andavano a far visita alla sorella. Approfittando del candore della ragazza e della gioia che ella sempre mostrava nel rivederle, si conquistarono con simulato affetto il suo animo, e interrogandola su tutte le cose e informandosi circa l’aspetto del marito, finirono col farle confessare che ella non aveva mai visto il suo sposo. In base a questa dichiarazione, convinsero poi la sorella che il suo consorte fosse un orribile mostro assassino, un serpente velenoso che spesso era stato visto ritirarsi la sera nel palazzo, di ritorno dal suo pasto nelle campagne, e che presto, non appena si fosse trovata ad uno stadio più avanzato della gravidanza e con la pancia più grossa e piena, non si sarebbe fatto scrupolo di divorare lei e il figlio che portava in grembo. Instillato così nella giovane il dubbio e la paura, la persuasero infine a nascondere una lucerna e un rasoio presso il letto, e di notte, mentre lo sposo dormiva, a scoprirne l’aspetto e a tagliargli la testa. Psiche fece dunque come le era stato perfidamente suggerito, attese la notte, e quando fu sicura che il marito dormiva, brandì l’affilato rasoio e si preparò a sgozzarlo, ma nell’avvicinarsi a lui vide al chiarore della lampada un bellissimo adolescente graziosamente addormentato. Non era il mostro di cui le sorelle le avevano parlato, bensì Cupìdo in persona, alla cui vista ella si sentì immediatamente rinascere. Emozionatissima per la scoperta, le vennero meno le forze e la lama le balzò via dalle mani tremanti, andando a ricadere al lato del letto, dove erano le armi del dio. Nell’esaminarle, Psiche si punse con una freccia la punta del pollice, innamorandosi di più ancora di Amore e provando per lui una perduta passione mista a bruciante desiderio. Mai sazia di ammirare le meravigliose fattezze del suo sposo e sfiorandolo con timida mano, lasciò colare inavvertitamente su di lui dalla lampada una goccia d’olio bollente. Bruciato alla spalla destra, il dio balzò su, e accorgendosi che la sua sposa era venuta meno alle promesse, senza proferire parola, fuggì via da lei amareggiato, e non fece più ritorno.Non più protetta da Amore, la povera Psiche si mise a errare per il mondo alla ricerca del suo amato, inseguita dalla collera di Afrodite, che ora la considerava sua nemica non solo per essersi fatta sconsideratamente venerare come una dea, ma anche per aver profanato la dignità divina del figlio e per aver coperto di infamia l’intera famiglia celeste col suo comportamento spudorato e irriguardoso. Durante le sue peregrinazioni, Psiche avvistò presso il ciglio di un rivo il buon dio Pan che amoreggiava con la dea montana Eco. Egli la vide e la chiamò, e con dolci parole la esortò a non disperare, incoraggiandola a onorare con fervide preghiere il più grande di tutti gli dèi, il giovane e garbato Cupìdo, per cercare di conquistarne l’animo sensibile con costanti prove di affettuosa devozione. Rimessasi in viaggio, Psiche giunse una sera nei pressi di una città, dove regnava il marito di una delle sue sorelle. Quando lo seppe, si fece annunciare al palazzo, e accolta dalla sorella, le raccontò come erano andate le cose nel mettere in atto il piano consigliatole. Le disse che quando lo sposo, che altri non era che il bellissimo Cupido, era rimasto ustionato dall’olio della lampada e si era accorto del suo intento omicida, incollerito, l’aveva scacciata di casa, gridando nella rabbia che si sarebbe presa sua sorella; e a questo punto, Psiche fece il nome della sorella che stava davanti a lei ad ascoltarla. Questa, nell’udire ciò, presa da invidiosa passione, subito trovò delle scuse, s’imbarcò e si diresse al monte, e una volta lì, si lanciò dalla rupe invocando Cupido. Questa volta, però, non fu sorretta da Zefiro, e sbattendo contro gli spuntoni rocciosi, si sfracellò prima di raggiungere il fondo del baratro. La stessa cosa Psiche fece con l’altra sorella, che pure corse verso la rupe e si lanciò nel vuoto, andando incontro alla stessa fine. Dopo avere in tal modo regolato i conti con le sorelle, ripagandole con la stessa moneta, Psiche continuò a spostarsi di luogo in luogo alla ricerca di suo marito, ma senza successo. Chiese anche aiuto a Cerere, in un tempio isolato, ma la dea le rispose che non poteva inimicarsi la cognata per lei, e che l’unica cosa che poteva fare era di lasciarla andare senza denunciarla. Anche Lucina le si rivolse negli stessi termini, dicendole che sarebbe stata ben lieta di accogliere le sue preci, se ciò non avesse significato mettersi contro la nuora. Sconvolta da questi rifiuti, e vedendo naufragare le sue speranze nel considerare come nessuno degli dèi l’avrebbe mai soccorsa, giacché tutti si mostravano fra loro uniti da grande solidarietà e vicini alla madre del suo amato, Psiche risolse di rivolgere le sue preghiere alla stessa Venere per cercare di mitigarne la collera con una tardiva sottomissione, pur sapendo che la sua era un’impresa disperata e già in partenza destinata a fallire. Intanto Afrodite la stava cercando, e si era rivolta a Mercurio perché si facesse banditore di un suo proclama, col quale si informava il popolo che un’ancella di Venere di nome Psiche era ricercata. Mercurio adempì l’incarico affidatogli, gridando a tutte le genti che chiunque avesse tenuto illegalmente nascosta Psiche sarebbe stato severamente punito, mentre chi l’avesse segnalata sarebbe stato ricompensato da Venere in persona con sette soavissimi baci, più uno particolarmente delizioso comprensivo di movimento di lingua. A tale appello tutti si misero alla ricerca di Psiche, che fu riconosciuta da una serva di Venere di nome Consuetudine e trascinata per i capelli al cospetto della dea. Questa, dicendole di essersi finalmente degnata di venire a salutare la suocera, la rinchiuse nel suo palazzo, la tormentò in mille modi e le impose compiti impossibili da compiersi in un solo giorno, come separare da un grande mucchio un’enorme quantità di semi diversi, raccogliere ciocche di lana dal vello dorato di certi inavvicinabili montoni selvatici, arrampicarsi sulla cima di un’aspra montagna per attingere alcune gocce dell’acqua venefica di un affluente dello Stige, e così via. Ma Psiche, soccorsa dalla buona Provvidenza, che ebbe pietà della sposa del dio alato, riuscì a portarli a compimento tutti, prima con l’aiuto delle operose formiche, che provvidero a separare i semi, poi con l’aiuto d’un giunco, che la consigliò di raccogliere le ciocche di lana rimaste attaccate alle fronde delle piante, poi con l’aiuto di un’aquila reale, che per lei riempì una boccetta della nera acqua dell’affluente del fiume infernale. Un altro compito che Venere affidò a Psiche, visto che si era mostrata così brava, fu quello di scendere nell’Ade per chiedere a Persefone una boccetta d’acqua di Giovinezza. Psiche, disperata, non sapendo come fare, salì su un alto bastione decisa a buttarsi di sotto, così da raggiungere gli inferi per la via più diretta, ma la torre la dissuase, indicandole il modo di raggiungere il Tartaro e di assolvere senza pericolo l’incarico assegnatole, avvertendola anche di non guardare nella pisside, una volta che Proserpina gliel’avesse riconsegnata piena di unguento. Seguendo i suggerimenti della torre, Psiche si recò a Lacedemone e attraverso il vestibolo di Dite s’incamminò verso la casa dell’Orco, portando in bocca due monetine da dare a Caronte per il traghettamento all’andata e al ritorno, e nelle mani due focacce da offrire al cane Cèrbero, affinché la facesse entrare e uscire dalla casa di Proserpina. Psiche, dunque, discese agli Inferi, superò tutte le insidie, come quella dell’asino zoppo e del cavallante zoppo, del naufrago che chiede aiuto, delle vecchie tessitrici e così via, e riavuta da Proserpina la pisside con l’acqua di giovinezza, ritornò alla luce, ansiosa di portare a termine il suo incarico. Tuttavia, durante il cammino verso la reggia di Venere, fu vinta dalla curiosità e aperse la pisside. Improvvisamente fu avvinta da una nube soporifera che la fece sprofondare in un sonno mortale. Frattanto Cupido, rimessosi dalla sua infermità col cicatrizzarsi della piaga, volò dalla sua Psiche, la svegliò con una puntura delle sue frecce, e fatto di nuovo rientrare il sonno nella pisside, disse all’amata di portare a termine il suo compito, mentre lui si sarebbe occupato del resto. Senza perdere tempo, volò quindi fino al sommo del cielo e supplicò il gran Giove di perorare la sua causa e di concedergli il permesso di sposare Psiche, sicché in breve furono annunciate le nozze, mentre il padre degli dèi rese Psiche immortale e la riconciliò con la figlia Afrodite. Col matrimonio Psiche fu unita a Cupido per sempre, e portata a termine la gravidanza, ella diede alla luce una figlia che fu chiamata Voluttà, nome che designa l’intenso godimento che si prova nel soddisfare un forte desiderio.Di solito Psiche è rappresentata come una bambina alata, spesso unita a Eros o in compagnia di altri Amorini come lei; altre volte, invece, è raffigurata sotto l’spetto di una farfalla; difatti, nelle credenze degli antichi, l’anima veniva paragonata a una farfalla che volava via dal corpo dopo la morte.

11_Ilizìa, figlia di Zeus e di Era, e quindi sorella di Ebe (la Giovinezza), è la dèa che sovrintende alle nascite.

12_Iride, figlia di Taumànte (figlio di Ponto e di Gea) e dell’oceanide Elèttra, e quindi sorella delle Arpìe, è la messaggera celeste di Zeus e di Èra, identificata con l’arcobaleno.

13_Dióne, figlia di Urano e di Gea, oppure di Oceano e di Teti, o una figlia di Atlante; fu considerata una primissima moglie o fiamma amorosa di Zeus; è anche la nutrice di Dioniso.

14_Ermes, figlio di Zeus e della pleiade Maia, è il messaggero di Zeus e degli dèi infernali, dio psicopompo e sostenitore degli affari, protettore dei viaggiatori, dei commercianti e dei truffatori.

15_Artemide è la dea greca della caccia, gemella di Apollo, figlia di Zeus e di Latona; disprezza l’amore ed è votata alla verginità.
Afrodite, figlia di Zeus e di Dione, o una figlia du Urano; è la dea dell’amore e della bellezza.

16_Artemide Ctonia è la signora delle belve, dei fantasmi notturni e delle morti improvvise.

17_cubito  circa 444 mm.

18_braccio  circa 180 cm.

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8 risposte a 5_Vita, Amore e Morte nei miti greco-italici / AMORE E PSICHE

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