di Ciro A. R. Abilitato
già pubblicato in questo sito il 26-05-2011
IL MITO DI PAN
All’epoca della colonizzazione greca dell’Italia, tra l’XI e l’VIII secolo a.C., esistevano nel Peloponneso regioni, come la proverbiale Arcadia e la Tracia, in cui vivevano comunità rurali caratterizzate da un grado di civiltà molto primitivo. Presso tali popolazioni venivano adorati Ermete e Pan ed erano praticati culti orribili, in cui spesso un semplice tronco o un pilastro appena dirozzato o la stessa pietra sacrificale, grossolanamente foggiata in una forma pressoché umana, costituiva l’immagine del dio. Presso queste popolazioni la capra era divenuta simbolo di fertilità perché i tori erano pregiati, e quando il cibo scarseggiava o si verificavano morie d’animali, la statua di Pan veniva percossa, come ancora avviene con divinità affini in alcuni villaggi della Cina e dell’India, e come fino a qualche tempo fa i contadini dell’agro campano usavano fare con gli alberi che da più anni non davano frutti, battendone il tronco alla base con un bastone. Un clan di licantropi praticava sacrifici umani e conservava usanze legate ad antiche consuetudini antropofagiche. Si pensava che chiunque assaggiasse la carne di una vittima umana sacrificata divenisse un lupo mannaro. C’era una caverna dedicata a Zeus Lŷkaios (Zeus-Licèo o Zeus-Lupo), dove gli uomini non facevano ombra e chiunque vi entrasse veniva colpito da maleficio e posseduto da demoni, sicché entro l’anno si ammalava e moriva o era colpito da morte violenta. Tutte queste superstizioni erano ancora vive nel periodo classico, vale a dire nei secc. VI-V a.C. Il culto di Pan, il Dio-Tutto, il cui nome originale sarebbe stato Pàoni, fu ingentilito e ridotto a rituali puramente simbolici quando cominciò ad essere messo in rapporto con le altre divinità dell’Olimpo, soprattutto con Apollo, il quale, si narrava, fu istruito dal rozzo dio nell’arte di predire il futuro. Pan, che in origine non era un dio olimpico, fu adottato da Atene nel V secolo, alla fine della guerra persiana. Tale passaggio al culto ufficiale può essere còlto nella leggenda quando essa narra del ritrovamento da parte di Ermes del piccolo Pan abbandonato dalla madre, e della sua presentazione a Zeus e agli altri dèi dell’Olimpo, i quali lo accolsero con gioia tra di loro affidandolo a Diòniso. Questo aneddoto della leggenda sancisce la fusione dei caratteri tipici del dio Pan d’Arcadia con quelli del trace Dioniso.
Quale nume dei boschi, dei pascoli e del bestiame, Pane era il dio greco dei pastori, dei cacciatori e di tutti gli abitanti delle campagne. Il suo culto, sorto originariamente in Arcadia, si diffuse in tutta la Grecia ed anche al di fuori del mondo ellenico. Sebbene la sua genealogia presenti numerose varianti, era ritenuto per lo più figlio di Èrmes e della ninfa Penèlope, figlia di Drìope, eroe eponimo del popolo che per primo occupò la penisola ellenica; ma non mancano leggende in cui il nome della ninfa Penelope viene confuso con quello della sposa di Ulisse. Appena nato, Pan fu abbandonato dalla madre, inorridita dal suo aspetto mostruoso, ma Èrmes lo raccolse, e avvoltolo in pelli di lepre lo portò con sé sull’Olimpo per presentarlo a Zeus, il quale lo accolse festosamente insieme a tutti gli altri dèi e lo affidò a Diòniso, che fu felice di averlo al suo seguito. I Greci gli tributarono un culto particolare, specialmente dopo la vittoria di Maratona, che attribuivano al suo favore. Ad Atene gli fu consacrata una grotta che si apriva sul fianco dell’Acropoli.
Le più antiche rappresentazioni ci presentano il dio dei boschi come un demone di aspetto bestiale, mezzo uomo e mezzo capro e con un’espressione non meno arcigna che astuta. Corna ircine gli sovrastano la fronte, incurvandosi al di sopra dell’incolta capigliatura o del cranio spelacchiato; orecchie d’asino, mobili e ricoperte di fine calugine, sporgono ai lati della testa; occhi di pantera fiammeggiano al di sotto dei curvi sopraccigli. Tra gli alti zigomi sporgenti il naso è grinzoso e adunco, con larghe volute intorno alle narici dilatate; la bocca è larga, le labbra cascanti, il mento prominente al di sotto della barbetta appuntita. Dal collo alla vita, se si eccettua la coda, le fattezze sono quelle di un uomo con larghe spalle irsute e braccia vigorose, ma la parte inferiore del corpo è vellosa, le membra in tutto simili a quelle di un caprone, con le zampe sottili e nervose e i piedi provvisti di uno zoccolo spaccato. Stando a questo identikit, non è perciò difficile capire la povera Penèlope, che abbandonò il piccolo Pan appena nato perché spaventata dal suo aspetto orripilante. La tradizione ce lo presenta come un essere selvaggio e sgraziato, ma scaltro. Dotato di prodigiosa agilità, è veloce nella corsa, si arrampica con destrezza sulle rocce, risale senza fatica i dirupi e le ripide pendici dei monti, dai quali, col suo urlo agghiacciante, diffonde il terrore per le convalli. Percorre così l’aspro territorio della boscosa Arcadia, spesso seguito da un corteo di ninfe festanti che danzano e intonano cori al suono discordante della rustica zampogna. L’improvviso bisogno di solitudine lo spinge a rintanarsi nella segreta ombra dei boschi, dove rimane acquattato tra gli alberi e i pruneti per fare la posta alle ninfe e atterrire i passanti. Era noto per il suo ardore virile, che lo portava ad inseguire con uguale passione ninfe e giovinetti (i racconti di Pan venivano anche usati per mettere in guardia i fanciulli dalla pederastia), ma quando la ricerca amorosa rimaneva senza frutto, il suo incontenibile impulso lo spingeva a desiderare gli animali dei greggi . Pan è anche il dio del riposo meridiano; soleva infatti trascorrere le ore più calde del giorno in prossimità di fresche sorgenti, dove amava lasciarsi trasportare dal fruscio della foresta e dal sommesso gorgoglio delle acque. Naturalmente, quando se ne stava così raccolto non era consigliabile disturbarlo. D’altra parte, Pan possedeva capacità divinatorie e conosceva le pratiche della guarigione. Si narrava anzi che avesse istruito Apollo nell’arte di predire il futuro. Ciò nondimeno, per ottenere presagi o cure da questo essere diffidente e scontroso, era necessario tendergli agguati, catturarlo e costringerlo con ricatti meschini.
In origine il nome del dio sarebbe stato Pàoni, che significa “ogni cosa”, ma non nel senso di totalità cosmica, bensì in quello di “Tutto-Natura” o “Universo-Natura”
Il culto di Pan fu ingentilito e ridotto a rituali puramente simbolici quando cominciò ad essere messo in rapporto con le altre divinità dell’Olimpo. Nella Grecia prearcaica, la cui economia è in massima parte fondata sulla pastorizia e dove le divinità non sono che allegorie dei diversi aspetti della realtà umana e naturale, il mito di Pan si ricollega alla domesticazione degli animali, e di conseguenza al controllo della riproduzione e alla selezione di nuove varietà utili all’uomo. Come riferisce Strabone nella Geografia, «L’Arcadia è ricca di ampi pascoli per il bestiame, e vi si trovano razze così eccellenti di cavalli e asini che questi animali sono usati come stalloni». Come dio dall’impeto selvaggio e propiziatore di fertilità, Pan incarna in forma idealizzata l’intero mondo pastorale, richiamando alla nostra memoria un’epoca in cui l’affinità dell’uomo con la natura era più stretta e la sua comunanza con ogni cosa vivente più intima e sentita. Non a caso Pan è anche il pastore Egìcoro, che alla lettera è “colui che tiene riunite le capre in un recinto”. Un altro nome del dio è Egìpane (“Tutto-capra” e anche “Tutto-turbine”), nome col quale vengono indicate anche le divinità latine Fàuno e Silvano, mentre furono chiamati Egìpani i numerosi figli del dio, e in seguito tutti gli altri dèi silvestri appartenenti al suo seguito, compresi i Sàtiri e i Silèni.
Non è difficile constatare come in Pan coesistano due nature in apparenza contrastanti: una selvaggia, istintiva, caratterizzata da una esuberante vitalità, espressione della potenza generativa del Tutto-natura, e una intelligente e spiccatamente sensitiva, per mezzo della quale questo essere rimane in stretto rapporto col segreto mondo ultrafenomenico. Il panciuto strumento silvano con cui Pane suole accompagnare le allegre sarabande degli spiriti dei boschi sembra sottolineare l’armonia di questo Tutto che con ogni evidenza incarna la vita animale e la realtà pastorale della Grecia prearcaica. Un suo analogo fra le antiche popolazioni europee è il dio Pooka della tradizione celtica.
Numerose rappresentazioni raffigurano Pan con un bastone da pastore e il capo cinto da una corona di pino, oppure con un ramoscello di pino in una mano; ma il suo attributo fondamentale rimane la fistola pastorale o zampogna, strumento a più canne di ineguale lunghezza intonate secondo la serie diatonica, vero e proprio organo portativo che il dio stesso ha foggiato col giunco in cui è stata tramutata la ninfa Sirìnga. Nota è la leggenda dell’invenzione di questo strumento antichissimo: Sirìnga è un’amadriade arcade, figlia del dio fluviale Ladóne. Un giorno Pan, di ritorno dal monte Licèo, la vede aggirarsi per i boschi munita di arco di corno e di faretra, e decide di inseguirla. La ragazza, insensibile alle sue lusinghe, fugge attraverso luoghi impervi, ma è costretta ad arrestare la sua corsa presso le acque del Ladone, che le sbarrano la strada. Siringa, che ha votato la sua verginità alla dea della caccia Artemide (la Diana dei Romani), supplica allora le sorelle fluviali di mutare il suo aspetto, sicché Pan, raggiuntala, si ritrova a stringere, invece che il corpo di lei, un fascio di canne palustri. Mentre il dio rimane sconcertato a contemplarle, il vento soffia fra di esse producendo un suono delicato, simile a un lamento. Colpito dall’inusitato fenomeno e dalla dolcezza della voce, Pan decide allora di unire con cera sette giunchi di diversa lunghezza e di soffiarvi lui stesso dentro. Fu così che ottenne lo strumento che gli è caro, da lui chiamato siringa in ricordo della ninfa desiderata.
Si raccontava altresì che nelle campagne di Efeso si trovava una grotta nella quale Pan aveva deposto la sua prima siringa, e in cui venivano rinchiuse, per essere messe alla prova, le ragazze che sostenevano di essere vergini. Se le giovani erano realmente pure, si udivano uscire dalla grotta i suoni melodiosi della siringa, poi la porta si spalancava da sola e la ragazza riappariva coronata di pino. In caso contrario, si udivano strida e lamenti funerei, e quando dopo giorni finalmente si riusciva a forzare il pesante masso che chiudeva la grotta, la ragazza risultava sparita.
Ignorato dai poemi omerici, il mito di Pan è stato tramandato attraverso rare leggende, per lo più frutto tardivo dell’immaginazione di poeti alessandrini, che attingendo ad antichissime tradizioni, lo hanno spesso evocato nei loro racconti, facendo di questo demone selvaggio il personaggio più pittoresco dell’idillio rusticano. A conferma del valore simbolico del mito di Pan, senz’altro legato al controllo esercitato dall’uomo sulla riproduzione degli animali, le leggende in apparenza più antiche riguardano la sua nascita. Tra queste è l’inno detto “omerico”, che narra della nascita del dio campestre dalla ninfa Penelope, figlia dell’eroe eponimo del popolo dei Drìopi, il quale, nella versione arcade della leggenda, sarebbe un discendente del re Licaone, figlio a sua volta di Pelasgo. Esistono tuttavia altre filiazioni per Pan. Una delle più curiose lo mette in rapporto col ciclo odissiaco, identificando Penelope con la sposa di Ulisse e dandone un’immagine affatto diversa da quella più comune che la vuole moglie fedele dell’eroe itacese. Difatti, secondo questa versione, Penelope, avendo ceduto, in assenza di Ulisse, alle profferte amorose dei centoventinove pretendenti, al ritorno del marito è da questi scacciata e rimandata a Sparta dal padre Icario, da cui ella però si allontana per recarsi a Mantinea, dove prima di morire si sarebbe unita a Ermes ed avrebbe dato alla luce Pan. Altre tradizioni narrano che in assenza del Laerziade, tutti i proci fossero stati a turno gli amanti di Penelope, e che da tutte queste unioni fosse nato Pan, quale frutto di amori peccaminosi. Così, stando a queste leggende, allorché Ulisse fece ritorno in patria, amareggiato dalle numerose prove di infedeltà della sposa, la rimandò da Icario e ripartì per nuove imprese.
Pan passava anche per essere un figlio di Zeus e di Ibris, personificazione quest’ultima della Tracotanza, oppure di Zeus e della ninfa cacciatrice Callistò, appartenente alla schiera delle compagne di Artemide. In quest’ultima versione era il fratello gemello di Àrcade, l’eroe eponimo della nota regione montuosa del Peloponneso centrale, dove si stende la pianura Tegèa. Talvolta se ne faceva anche il figlio di divinità della prima generazione, come di Ètere, personificazione del Cielo superiore, e della ninfa Ènoe, o di Urano e di Gea, ovvero un figlio di Crono e di Rea, e quindi un fratello di Zeus. Altre volte, più modestamente, è il figlio del pastore Crati e di una capra. Numerosissime sono le avventure amorose di Pan, che amò in modo particolare la ninfa Eco, la quale però non lo corrispose, e la dèa Selène, che egli ricompensò dei favori ricevuti facendole dono di una mandria di candidi buoi. Dagli amori con Eufème, la nutrice delle Muse, ebbe un figlio di nome Cròto (lo Strepito), un abile cacciatore che fu allevato e visse sull’Elicona insieme alle sue sorelle di latte, in lode delle quali inventò l’applauso. Le Muse, a loro volta, in segno di riconoscenza, ottennero da Zeus che Croto fosse trasformato in una costellazione, che secondo alcuni sarebbe quella del Sagittario.
Pan, che in origine non era un dio olimpico, fu adottato da Atene nel V secolo, alla fine della guerra persiana. Tale passaggio al culto ufficiale trova traccia nel racconto del suo ritrovamento da parte di Ermers dopo che la madre lo ebbe abbandonato, e della sua presentazione agli dèi dell’Olimpo. Questo aneddoto sancisce la fusione dei caratteri tipici del dio Pan d’Arcadia con quelli del trace Dioniso, il dio nato due volte. Fino al V secolo a. C. Pane fu dunque rappresentato con sembianze ferine, ma successivamente acquistò lineamenti meno rozzi e aggressivi e un’apparenza più decisamente umana, con un’espressione mite e spensierata. Più tardi, nel mondo romano, questo demone silvestre divenne via via il colonus, l’agricoltore, il contadino, il mite e allegro campagnolo, che a sua volta, messo a confronto con gli abitanti della città, diventa il rozzo villano, il villico dai modi grossolani, il semplicione del contado, da cui il sostantivo inglese “clown”, che appunto deriva dal lat. colonus.
A Roma, nel ciclo delle leggende palatine, Pan è ora identificato col dio Fàuno, ora con Silvano, mentre col nome di Panìsco (Paniscus), che significa “piccolo Pan”, veniva indicata una piccola divinità, spesso raffigurata come un vispo demonietto di aspetto sgraziato che scherza e gioca con Cupìdo. Una leggenda riferita da Plutarco vuole che all’epoca di Augusto un navigatore che si trovava in mare abbia sentito voci misteriose annunciare la morte del grande Pan. Naturalmente, nessuno oserebbe pensare che proprio i culti di Pan e Diòniso siano stati all’origine del misticismo delle epoche successive e che fossero destinati ad avere una parte importante nel processo di formazione di simbolismi religiosi più evoluti.
1_Pan incarna la natura animale, e in quanto tale è forza vitale e istinto. Come forza vitale è la vita stessa in una sua particolare determinazione, mentre come istinto non solo rappresenta l’impulso riproduttivo che garantisce la conservazione della vita animale, ma più in generale è l’intelligenza che guida il comportamento di ogni specie animale in natura.
2_Egìpane, gr. Αighipan -anos, lat. Aegĭpan -ānis, comp. di aics aigòs ‘capra, capro’ e pan ‘tutto’; dove aics è anche radice di aikòs, che significa ‘turbine, impeto’.
3_Siryngs = zampogna, siringa, calamo pastorale.
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