IL CANTO ARMONICO DEI NOMADI GUERRIERI DEI MONTI ALTAI

IL CANTO ARMONICO DEI NOMADI GUERRIERI DEI MONTI ALTAI

di Ciro A. R. Abilitato

Mongolian music – Altain magtaal

Mongolian Song; POWER FOR THE SOUL

È un canto diffuso tra le popolazioni dei Monti Altaj (i “Monti d’Oro”), l’imponente catena montuosa che corre lungo il confine della Russia col Kazakistan, la Mongolia e la Manciuria (regione amministrativamente divisa tra la Cina e la Russia); tipico specialmente della Mongolia e della vicina regione di Tuva, una piccola repubblica della Federazione Russa, nella Siberia meridionale. Nella tradizione mongola-tuvana questo caratteristico canto laringeo (throat singing), detto Khöömi, è eseguito facendo ricorso ad una speciale tecnica di fonazione gutturale tramandata di generazione in generazione, che consente di mettere simultaneamente in vibrazione le 2 pliche ventricolari della laringe (corde vocali false) e le 2 pliche vocali sottostanti (corde vocali vere). Con questa tecnica si ottiene lo sdoppiamento del suono vocale in due suoni distinti, il più basso dei quali corrisponde ad una voce di normale tonalità, mentre il più alto è un suono flautato, corrispondente ad una delle armoniche parziali prodotte in un registro di canto acuto (una specie di fischio prodotto con la gola). La melodia che ne risulta è un canto difonico, ossia un canto sdoppiato (overtone singing), in cui ogni componente sonora è armonicamente modellata a imitazione dei suoni del mondo naturale. Nel canto Khöömi, di cui esistono nemerose varianti regionali, i diversi suoni riproducono infatti le tonalità delle voci degli animali, come quella del cavallo, del lupo, del cammello o degli uccelli, oppure l’eco delle montagne e delle valli, il mormorio delle acque dei fiumi e il sibilo del vento della steppa. Si tratta di una tecnica che viene appresa sin dalla tenera età, per cui un solo cantore può modulare contemparaneamente una melodia con due voci diverse, tanto da non sembrare che il canto sia prodotto da un’unica persona. Anzi, durante una esecuzione di gruppo di canto armonico, è in realtà impossibile stabilire quante siano le persone che prendono parte al canto. “La storia del cammello che piange” è un film documentario del 2003, realizzato dalla regista mongola Byambasuren Davaa in collaborazione col fiorentino Luigi Falcorni, il cui titolo originale è Die Geschichte vom weinenden Kamel, dove si narra di un cucciolo di cammello rifiutato dalla madre. Nel film, ambientato nella terra di Gengis Khan, accade che il pastore, cantando di gola, modulando la voce e sussurrando melodie alla madre del piccolo, la convince, alla fine, a prendersi cura del suo negletto piccino. È questo il potere del canto armonico dei pastori della steppa mongola. Naturalmente, a tanta ricchezza di suoni corrisponde un adeguato campionario di strumenti musicali. Su tutti domina il morin khuur, strumento nazionale della Mongolia, simile a un violino da gamba a cassa quadrata, insostituibile accompagnamento dell’urtyn duu, la conzone lunga, ed entrato nel 2010 a far parte del Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, insieme al khoomi, il canto di gola. Simile a una viola da gamba, si suona tirando o spingendo di lato le corde (a differenza degli strumenti occidentali, in cui le corde si schiacciano e si pizzicano). Della stessa famiglia fanno parte l’Ikh Khuur (contrabbasso), l’Huu-Chir (violino), la Yatga (cetra), lo Yoo-Chin (salterio a percussione), il Tobs Khuur e lo Shanz (liuti). Tra gli strumenti a fiato c’è il Limbe, secondo per importanza solo al Morin Khuur. Simile al flauto traverso, viene suonato ricorrendo slla tecnica della respirazione circolare, che consente di produrre un suono continuo soffiando nello strumento e contemporaneamente inspirando nuova aria. Altri strumenti a fiato sono lo Tsuur (flauto dritto), il Bishur (oboe), l’Ever Buree (clarinetto), il Rapal (tromba d’ottone), il Ganlin (o Gandan, o Dun, tromba corta usata per i rituali buddisti), il Buri (colossale tromba in rame rosso lunga quasi cinque metri). Di derivazione cinese o tibetana sono le percussioni, quali il Rnga (grande tamburo orizzontale), il Damaru (tamburo a clessidra), il Khets (tamburello a sonagli), i Tsan (piatti), il gong e l’aman Khhur (scacciapensieri).

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Mongolian traditional music – Khusugtun – Ethnic Ballad Group

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Il musicologo Manuel Garcia (Madrid, 17 marzo 1805 – Londra, 1 luglio 1906) fu il primo, in una conferenza tenuta il 16 novembre 1840 all’Accademia delle Scienze di Parigi, a descrivere questo tipo di canto, che egli sosteneva di aver ascoltato da cantori Bashiri degli Urali. Tuttavia, spesso, la possibilità di una simile produzione canora è messa in discussione. In un trattato di acustica pubblicato nel 1880, il musicologo Carl Randau (1893 − 1969) così si esprime: «si deve classificare fra i miracoli ciò che Garcia racconta dei contadini russi, da cui avrebbe sentito cantare contemporaneamente da una stessa persona una melodia con voce di petto e un’altra con voce di testa». Naturalmente, ciò che descrisse Garcia rimane ai nostri giorni ancora un miracolo, come molti altri. Un miracolo che il tempo e la fretta degli uomini di correre avanti non hanno cancellato, fortunatamente, e di cui oggidì possiamo tutti essere facilmente testimoni.

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GLI UNNI NELLA DESCRIZIONE DELLO STORICO LATINO AMMIANO MARCELLINO

Gli Unni erano una popolazione nomade e guerriera asiatica, probabilmente originatasi nella regione dei monti Altai, a nord della Cina, discendente degli Hiungnu, che abitavano l’aspro e vasto territorio dell’altopiano monglico, il Kan-su e il deserto di Gobi. Le più antiche notizie sugli Hung-nu risalgono al VI secolo a.C., ma la loro importanza si accrebbe notevolmente tra il III e il V secolo d.C., allorché giunsero a minacciare i confini dei popoli del centro Europa e l’Impero Romano.

Ammiano Marcellino, storico latino vissuto nel IV secolo d.C., dice che questo popolo rude e bellicoso era giunto ad occupare il territorio al di là delle paludi meotiche e quello lungo l’oceano glaciale, dando di esso la seguente descrizione: «Hanno membra robuste e solide, grosso collo, e sono stranamente brutti e curvi, tanto che potrebbero essere presi per animali bipedi o per qualcosa di simile a tronchi grossolanamente scolpiti, come quelli che si trovano sui parapetti dei ponti. Per quanto abbiano sembiante umano, essi sono deformi e così rozzi nel loro tenore di vita da non aver bisogno di fuoco né di cibi conditi. Si nutrono infatti di radici, di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po’ di tempo fra le loro cosce e il dorso dei cavalli. [...] Usano berretti ricurvi e coprono le gambe irsute con pelli caprine. Le loro scarpe, poiché non sono state precedentemente modellate, impediscono loro di camminare liberamente. Per questa ragione sono poco adatti a combattere a piedi, ma inchiodati, per così dire, anche se così deformi sui loro forti cavalli, e sedendo su di essi a volte come le donne, attendono alle consuete occupazioni. Stando a cavallo notte e giorno, ognuno, in mezzo a questa gente, acquista e vende, mangia e beve e, sempre appoggiato al corto collo del cavallo, si addormenta così profondamente da fare ogni sorta di sogni. Nelle assemblee in cui deliberano su questioni importanti, tutti discutono in questo medesimo modo degli interessi comuni [...]».

Mongolian Incredible Throat Singing


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