PREFAZIONE alla II edizione de “IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE” di A. Schopenhauer

Versione italiana a cura di Ciro A. R. Abilitato

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IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE

TRATTATO FILOSOFICO

Arthur Schopenhauer

PREFAZIONE DELL’AUTORE ALLA SECONDA EDIZIONE

Non ai contemporanei, né ai miei connazionali, bensì all’umanità io consegno la mia opera ormai compiuta, persuaso che non sarà essa priva di valore per la civiltà, quand’anche il suo valore, come di solito è destino che sia per tutto ciò che è buono, dovesse essere tardivamente riconosciuto. Soltanto per l’umanità, infatti, e non già per una sola generazione, che passa frettolosa, immersa nella sua fugace illusione, è potuto accadere che la mia mente, quasi contro il mio volere, si sia ininterrottamente rivolta per tutta una vita a questo lavoro. Né la mancanza di consensi, durante questo tempo, ha potuto trarmi in inganno circa la validità dell’opera, in quanto vidi sempre fare oggetto di onori e di ammirazione il falso, l’ingiusto e infine l’assurdo e l’insensato. Sono giunto perciò alla conclusione che coloro che sono capaci di produrre il vero e il giusto non sarebbero così pochi e non costituirebbero con le loro opere un’eccezione rispetto alla transitorietà delle altre cose umane, se altrettanto rari − tanto da poterne andare inutilmente in cerca per una ventina d’anni − non fossero anche quelli che il giusto e il vero sono in grado di comprendere e che sanno conseguentemente riconoscere ciò che è autentico ed esemplare. Ciò nondimeno, se perfino questa possibilità fosse negata, andrebbe perduta per i primi la confortante prospettiva della posterità, stimolo indispensabile per chiunque si sia prefissato un elevato proposito. Chi prende seriamente ad occuparsi di qualcosa di importante che non comporta una utilità materiale, non può fare affidamento sull’interesse e la simpatia dei contemporanei. Si constaterà anzi, il più delle volte, come si faccia valere nel mondo una falsa immagine di quella cosa, la quale, figurando in anodina veste tra i fatti ordinari della consueta realtà, sembra inevitabilmente destinata a non suscitare l’attenzione che merita e a non lasciare traccia di sé con l’esaurirsi dei giorni di gloria e lo spegnersi dei fuochi d’artificio che l’effimera rinomanza pure non manca di concedere a chicchessia. Ma va bene anche così, giacché non è poi un gran male che le cose vadano in tal modo. Poiché ogni preoccupazione che sia estranea e non si allinei alla cosa di cui ci si occupa non può fare altro che intorbidire la capacità di riflessione, l’interesse che ad essa sprona impone che la stessa sia invero coltivata per se medesima, senza altri scopi, ché altrimenti mai appieno potrebbero conseguirsi le finalità che ad essa devono condurre, né la cosa stessa potrebbe riuscire secondo gli incorrotti criteri di rigore e onestà che sin dal principio l’avranno informata. Pertanto, come pienamente attesta la storia letteraria, ogni opera di pregio ha avuto bisogno di molto tempo per affermarsi, tanto più se del genere istruttivo e non dilettevole, mentre nello stesso tempo il falso risplendeva. Ciò accade proprio perché è ben difficile, se non impossibile, riuscire a distinguere tra la natura vera di una cosa e ciò che di essa si dà nell’apparenza, sicché raramente la cosa può essere vista nel suo complesso e nella sua effettiva realtà, come solo può avvenire quando quelle parti di essa che prima apparivano separate e tra loro inconciliabili sono fatte perfettamente ricombaciare nel giudizio, proprio come l’idea stessa della cosa richiede. Ma un simile processo non sempre si produce: tale è appunto la maledizione del nostro mondo dominato dalla pena e dal bisogno, alla qual pena e bisogno tutto deve servire e prestarsi. Il mondo non è perciò conformato in maniera che possa prosperarvi e procedervi indisturbato un qualche nobile e sublime sforzo che meriti di venire di per sé perseguito, quale quello che appunto agogna a conseguire la luce e la verità. Avviene invece che, anche quando una simile aspirazione riesce ad imporsi e a produrre i suoi frutti, una volta che l’eco di questi ultimi si sia diffusa, subito si vedono gli interessi materiali e i fini personali appropriarsi della cosa, sia nell’idea generale che nei concetti particolari, per farne una loro maschera o un loro strumento. In conseguenza di ciò, è accaduto che anche la filosofia, dopo essere stata riportata in onore da Kant, sia divenuta lo strumento di interessi estranei, di stato dall’alto e personali dal basso, per quanto, a ben vedere, non si trattasse della filosofia ma della falsa immagine che se ne dava, con la quale la prima è di solito confusa. Questo non deve però stupirci, essendo l’incredibile maggioranza degli uomini, per sua natura, di null’altro capace se non di concepire fini materiali e di calcolare ad ogni occasione ove si trovi il proprio personale vantaggio, le quali cose sono perciò le uniche cui essa sia adatta e le sole che sia in grado di perseguire. La sola propensione alla verità pura, implicando un impegno troppo intenso, rappresenta pertanto qualcosa di troppo alto ed eccezionale per pretendere che tutti, o che molti, o che anche soltanto alcuni vi debbano prendere parte. Se però a volte si osserva, come per esempio appunto oggi in Germania, una sorprendente operosità, un vistoso affaccendarsi e un continuo scrivere e parlare in generale di argomenti di filosofia, si può stare ben sicuri che il vero primum mobile, la molla nascosta di un simile agitarsi, nonostante che con solenni arie si cerchi di sostenere il contrario, è soltanto un fine del tutto concreto e men che mai ideale: si tratterà insomma sempre e soltanto di interessi personali, d’ufficio, di chiesa, di stato, e cioè in breve, di interessi materiali. Sono perciò semplici interessi di partito quelli che mettono in così forte movimento le numerose penne dei presunti sapienti universali. Questi esagitati vociferatori non sono guidati da motivi ideali ma da ragioni assolutamente pratiche; il loro scopo non è offrire un’immagine veritiera delle cose ma trarre da ogni situazione un beneficio personale, sicché la verità è di certo l’ultima cosa cui vada il loro pensiero. Essa pertanto non trova gregari: anzi, attraverso un tale filosofico frastuono, può procedere lungo il suo cammino tranquilla e inosservata, come quando, nella notte invernale del più tenebroso dei secoli, il quale consumò il suo tempo racchiuso nella più rigida fede chiesastica, essa, quasi una dottrina segreta, a stento trovava il modo di venire comunicata a pochi adepti o, addirittura, di venire affidata unicamente alla pergamena. Oserei dire che nessuna epoca può essere più sfavorevole alla filosofia di quella in cui essa venga da una parte sfruttata come mezzo di governo e dall’altra come mezzo di lucro. O forse qualcuno si illude che, tra le tante confuse occupazioni consuete, la verità, da tutti del resto così trascurata, possa venire alla luce per caso? La verità non è invero la meretrice che si getta al collo di chi non la vuole: essa possiede una così altera bellezza che persino chi a lei sacrifichi ogni cosa non può mai essere sicuro di riuscire ad ottenere un giorno un suo pur minimo segno di consentimento. Oggigiorno i governi fanno della filosofia un mezzo per i loro fini di stato, e i dotti vedono nelle cattedre di filosofia soltanto un mestiere che, alla stregua degli altri, è in grado di dare di che vivere a chi lo eserciti. Essi fanno dunque ressa per ottenerle, sotto assicurazione dei loro buoni sentimenti, ovvero della disposizione a servire quei dati fini. E mantengono l’impegno. Non dunque la verità, non la chiarezza, né Platone o Aristotele, bensì gli scopi al cui servizio essi sono assegnati divengno la loro stella polare e il criterio altresì del vero, del giusto, di ciò che è importante e del loro esatto contrario. Tutto quello che all’opposto non corrisponde a tali fini, fosse pure la cosa più ragguardevole e ineludibile della loro disciplina, viene condannato o – ove ciò sia considerato arrischiato – concordemente soffocato mediante l’artificiosa ostentazione d’ignorarlo. Basti notare l’unanime accanimento di costoro contro il panteismo: può forse credere, anche un semplicione qualsiasi, ch’esso derivi da una reale convinzione? Come sarebbe possibile, peraltro, in una simile situazione, evitare che la filosofia, degradata a strumento di guadagno, non degeneri in sofistica? Proprio perché questo è inevitabile, e perché la regola secondo cui “di chi mi dà da mangiare, di lui le lodi io canto” è sempre stata in ogni tempo la sola che ogni genere di mestierante ben conoscesse, guadagnare denaro con la filosofia era presso gli antichi il segno distintivo dei sofisti [non dei filosofi]. A ciò deve poi aggiungersi che, essendo la mediocrità, anche a voler pagare, l’unica cosa che ci si possa attendere, esigere ed ottenere per denaro è stato, anche qui in Germania, giocoforza contentarsene. Vediamo quindi, in ogni Università tedesca, l’amata mediocrità affannarsi a mettere in piedi, con i propri ridicoli mezzi, la filosofia – che in alcun modo ancora non esiste – e applicarsi di gran lena a darle un assetto secondo misure e finalità preordinate: uno spettacolo a dire il vero penoso, beffarsi del quale sarebbe quasi una crudeltà.

Mentre in tal modo, già da tempo, la filosofia veniva ovunque forzata a servire da strumento, ora per fini pubblici, ora per fini privati, io, senza lasciarmi turbare, per più di trent’anni sono rimasto coerente al corso del mio pensiero, e questo solo perché così dovevo, né altrimenti potevo. Lo feci per un intimo impulso, sorretto peraltro dalla certezza che quanto uno ha potuto concepire di vero, o abbia portato alla luce dalla tenebra, pure deve venir colto, un giorno o l’altro, da un qualsiasi altro spirito pensante, e colpirlo, rallegrarlo, e confortarlo: ed è proprio per costui che si parla, come hanno per noi parlato quelli che ci somigliano e che sono diventati il nostro conforto nel deserto della vita. In genere, la propria missione viene compiuta per amore della cosa e per se stessi. Accade infatti con le speculazioni filosofiche, e in modo del tutto singolare, che torna anche a vantaggio degli altri solo quanto uno ebbe a coltivare per se medesimo, e non quello che sin dal principio era stato agli altri destinato. Il primo genere di speculazione è subito riconoscibile per la sua assoluta probità, giacché mai si cerca d’ingannare se stessi con offerte di noci vuote: ogni verbosità (ossia tutto ciò che è inutile ciarpame verbale) e ogni sofisticare (ossia tutto ciò che è malfido cavillare da manipolatori) viene salutarmente a mancare, sicché ogni periodo scritto ci compensa immediatamente della fatica che si compie per leggerlo. Coerentemente a tale qualità distintiva, i miei scritti recano così chiara l’insegna dell’onestà e della franchezza da essere, per ciò solo, in stridente contrasto con quelli dei tre celebri sofisti del periodo postkantiano. Sempre, infatti, mi si può trovare fermo in essi sul piano della riflessione, ossia del meditare razionalmente e dell’onesto comunicare, e mai tale piano mi si vede abbandonare per quello dell’ispirazione, la cosiddetta intuizione intellettuale o pensiero assoluto, il cui vero nome dovrebbe piuttosto essere tronfia vacuità e ciarlatanaria. Lavorando quindi con questo spirito e sulla base unicamente del riferito criterio, ma vedendo nel contempo come il falso e l’ingiusto fossero sempre più tenuti in pregio universale, anzi la tronfia vacuità e la mera ciarlataneria salire in altissima stima, già da gran tempo ho rinunciato ormai al plauso dei miei contemporanei. È poi davvero impossibile che chi abbia assistito allo spettacolo che di sé ha dato un’intera generazione di contemporanei con lo strombazzare per vent’anni le lodi di un Hegel, questa sorta di Calibano intellettuale, come si trattasse del più grande dei filosofi, facendo perfino risuonare l’eco della sua venerazione in ogni parte d’Europa, possa sperare dalla stessa generazione un qualche plauso e sentirsene lusingato. Questa generazione non ha più corone d’alloro da largire: il suo plauso si è ormai prostituito, né può avere valore alcuno il suo biasimo. Che io dica questo sul serio risulta evidente dal fatto che, se mai avessi aspirato all’approvazione dei miei contemporanei, avrei dovuto espungere dalla mia opera almeno una ventina di passi che appieno contrastano con tutte le loro convinzioni, e che anzi devono in parte loro apparire scandalosi. Ho però sempre giudicato un delitto il sacrificio d’una sola sillaba a quel plauso. Unico mio riferimento è stato, in tutta sincerità, il vero; seguendolo, io potevo soltanto augurarmi il mio proprio plauso, avendo del tutto distolto lo sguardo da un’era completamente decaduta riguardo a ogni superiore aspirazione dello spirito, e da una letteratura nazionale dove ha veramente toccato il suo vertice l’abilità di accordare con altisonanti parole un basso sentimento. Certo, non posso in alcun modo sfuggire ai difetti e alle debolezze inevitabilmente connessi con la mia natura, come a chiunque altro accade per quelli inerenti alla propria, ma non li accrescerò con indegni compromessi.

Per quel che concerne la circostanza di questa seconda edizione, mi rallegra in primo luogo constatare che, dopo venticinque anni, niente trovo da ritirare, ovvero il considerare che ferme sono rimaste in me stesso le mie convinzioni fondamentali. I cambiamenti apportati al primo volume, che non altro contiene se non il testo della prima edizione, non intaccano mai quindi l’essenziale, riguardando in parte cose secondarie e in parte maggiore consistendo in brevi aggiunte esplicative qua e là interpolate. Soltanto la Critica della filosofia kantiana ha subito importanti rettifiche e si è accresciuta di ampie aggiunte, dato che qui quanto era da riferire e da precisare non poteva venir raccolto in un libro supplementare, come invece si è potuto fare nel secondo volume per ciascuno dei quattro libri che espongono la mia dottrina. Ho scelto per questi ultimi tale diversa forma di ampliamento e di miglioramento in quanto i venticinque anni trascorsi dalla prima stampa hanno portato a un mio così accentuato cambiamento nel periodare e nei toni del discorso, che mi è parso impossibile unire in un tutto unico il contenuto del secondo volume con quello del primo, senza che a seguito di tale fusione venissero entrambi a soffrirne. Io presento perciò i due lavori separatamente, e spesso senza nulla aver modificato rispetto alla prima redazione dell’opera, anche là dove ora vorrei esprimermi in maniera del tutto diversa, specie perché non ho voluto sciupare con la pedanteria dell’età senile il lavoro dei miei giovani anni. Tutto ciò che, sotto questo riguardo, è da correggere, potrà agevolmente stabilirlo il lettore stesso con l’aiuto del secondo volume. Entrambi i volumi stanno l’uno all’altro, nell’accezione più estesa del termine, in un rapporto di reciproca integrazione, dal momento che, sotto l’aspetto intellettuale, il legame che tra essi sussiste è dovuto al fatto che ogni età della vita umana è di complemento all’altra. Si vedrà allora non solo che ogni volume contiene quel che l’altro non ha, ma che i vantaggi dell’uno appunto consistono in ciò che all’altro manca. Se la prima parte della mia opera possiede pertanto il pregio, rispetto alla seconda, di quanto solo l’ardore della giovinezza e il vigore hanno potuto conferire alla prima concezione, la seconda supererà la prima per maturità e per la compiuta elaborazione del pensiero; una cosa questa che può annoverarsi soltanto tra i frutti di una lunga vita e di una costante applicazione. Infatti, quando io possedevo la forza di afferrare il pensiero fondamentale del mio sistema sin dal principio, e di seguirlo quindi nelle sue quattro diramazioni per poi da queste tornare indietro verso l’unità del loro ceppo, e di esporre infine con chiarezza il tutto, non potevo essere allora altresì in grado di approfondire ogni singola parte di esso con quella compiutezza, profondità ed estensione che solo possono venir conseguite con una meditazione di molti anni, la quale è invero necessaria per metterlo alla prova di innumerevoli fatti, chiarirlo, sostenerlo con le dimostrazioni più diverse, illuminarlo in ogni sua parte, porlo audacemente a confronto con altre differenti posizioni speculative, isolare i molteplici elementi esponendoli nel miglior ordine possibile. Quindi, anche se al lettore sarebbe forse piaciuto avere la mia opera per intero, anziché composta da due metà che nell’uso debbono venire continuamente accostate, è tuttavia opportuno che questi rifletta sul fatto che, a tal fine, io avrei dovuto fornire in una età della vita ciò che solo in due è reso fattibile, e cioè possedere in una età quei caratteri che la natura di regola distribuisce in due età diverse. La necessità, pertanto, di presentare la mia opera in due metà vicendevolmente integrantisi può essere paragonata a quella che condiziona la costruzione di un obbiettivo acromatico: esso non può fabbricarsi in un sol pezzo, deve essere composto da una lente convessa di cristallo flint e da una lente concava di cristallo crown, in quanto soltanto dall’azione congiunta di tali due lenti può ottenersi l’oggetto voluto. D’altra parte, la fastidiosa esigenza di dover fare continuo ricorso a due volumi non mancherà di compensare il lettore, il quale potrà trovare un qualche diletto nel vedere come una materia sia stata trattata dalla stessa mente in anni molto diversi e con quale fermezza ne sia stato mantenuto lo spirito. Per chi poi non avesse familiarità alcuna con la mia filosofia, è anzitutto assolutamente consigliabile che la lettura del primo volume proceda per esteso senza darsi pensiero dei complementi, ricorrendo a questi solo in una seconda lettura. Diversamente, risulterebbe infatti troppo difficile per il lettore comprendere il sistema nella sua totalità, come da solo lo espone il primo volume, mentre nel secondo le principali teorie vengono una ad una dettagliatamente dimostrate e compiutamente svolte. Anche chi non desiderasse leggere due volte il primo volume, farebbe bene a leggere il secondo solo dopo di quello, e così come si presenta, nella regolare sequenza dei suoi capitoli, che del resto sono fra di loro in rapporto di stretta reciprocità, per quanto tale forte legame risulti meno evidente nel secondo volume: ogni lacuna potrà poi venire colmata successivamente dal ricordo di quanto contenuto nel primo volume, sempre, naturalmente, che esso sia stato ben compreso. Sarà poi agevole trovare ovunque il rinvio ai rispettivi luoghi del primo volume, dove io, a questo scopo, ho contrassegnato con numeri i paragrafi che nella prima edizione erano semplicemente indicati mediante linee di separazione.

Già nella prefazione alla prima edizione dissi che la mia filosofia trae origine da quella kantiana, di cui si presuppone quindi una conoscenza approfondita, cosa che qui ribadisco. La dottrina di Kant produce infatti in ogni mente che bene l’abbia compresa una sostanziale trasformazione, e così grande da potersi considerare una vera e propria rinascita intellettuale. Essa sola può in effetti eliminare quel realismo connaturato alla mente, derivante dalla originaria disposizione dell’intelletto: a ciò non sono riusciti né Berkeley né Malebranche, essendosi essi tenuti troppo sulle generali, mentre Kant entra nei particolari in modo così incisivo da non avere né modelli né imitatori. Egli esercita cioè sullo spirito un’azione del tutto speciale, oserei dire immadiata, grazie alla quale lo spirito medesimo subisce un radicale disinganno nelle sue credenze, riuscendo in ultimo a vedere ogni cosa sotto una diversa luce. Solo in questo modo ognuno può conseguire quella disposizione della mente che gli consente di accogliere le conclusioni più positive che io sono in grado di fornirgli. Chi invece ignora la filosofia kantiana si trova, per quanto altro possa aver studiato, in uno stato d’innocenza, ovvero è rimasto vincolato a quello stesso realismo naturale e infantile in cui ognuno di noi si trova sin dalla nascita, il quale ci rende abili ad ogni attività, tranne che alla filosofia. Costui, essendo mentalmente rimasto in quel primo stato, si troverà quindi dinanzi alle concezioni della filosofia kantiana come un minorenne dinanzi a un maggiorenne. Siffatta situazione appare oggi come un paradosso e, a dire il vero, non avrebbe mai potuto verificarsi nei primi trent’anni dopo l’apparizione della Critica della ragion pura. La ragione di ciò è da attribure al fatto che le generazioni successive non hanno conosciuto Kant, se non per una frettolosa e impaziente lettura o per qualche notizia di seconda mano ricevutane. Un altro motivo consiste nella grande quantità di tempo che cotesta generazione ha dissipato perseguendo un cattivo indirizzo e dedicandosi ai filosofemi di cervelli comuni e incompetenti, o addirittura di sofisti gonfi di vento che venivano senza ritegno vantati, donde appunto la confusione nei concetti primi e tutto quel che di grossolano e di vacuo traspare dalle tronfie e affettate apparenze e dai modi presuntuosi che caratterizzano i tentativi filosofici delle generazioni in tal maniera formate. Cadrebbe peraltro in formidabile errore chi pretendesse di apprendere la filosofia di Kant dalle esposizioni che altri ne ha prodotte: sento perciò il dovere di mettere seriamente in guardia da simili produzioni, e in particolare dalle più recenti, perché proprio in questi ultimi anni mi è capitato di leggerne alcune, tra gli scritti degli hegeliani, che sono delle vere e proprie fole. Del resto, come si può pretendere che delle menti distorte e sin dalla giovane età guastate dalle fumisterie dell’hegelismo, siano in grado di cogliere la profondità della minuziosa riflessione kantiana? Sono menti ormai abituate a confondere ogni sorta di filastrocche per pensieri filosofici, a prendere i più banali sofismi per vero acume e ogni ignobile stravaganza per dialettica: con l’assorbire una tale vertiginosa accozzaglia di parole, nelle quali invano lo spirito, estenuandosi, si sforza di trovare un pensiero, simili cervelli hanno ormai perso ogni capacità di coordinazione. Essi non sono fatti per una critica della ragione, né per alcuna filosofia: tutt’al più potrebbe giovare loro una medicina mentis o forse, in un primo tempo, come catartico, un petit cours de senscommunologie[1], e vedere poi, in un secondo momento, se sia o meno il caso di parlare di filosofia. Invano, qundi, la dottrina kantiana verrà cercata al di fuori delle stesse opere di Kant, di per sé sempre istruttive, anche là dove egli cade in errore, e persino dove sembra venirgli a mancare il consueto vigore intellettuale. Vale per lui in sommo grado, a motivo della sua originalità, quel che propriamente si è soliti dire di tutti i veri filosofi, e cioè che soltanto dai loro scritti, e non dalle relazioni altrui, si impara a conoscerli. I pensieri di quegli spiriti eccezionali non tollerano la mediazione di menti comuni. Tali pensieri, nati dietro spaziose, alte e ben curvate fronti, sotto le quali splendono occhi luminosi, una volta trasportati entro l’angusto alloggio e sotto il basso tetto di stretti crani dalle massicce pareti, nei quali rimangono schiacciati e compressi, e dai quali lo sguardo occheggia opaco e si tende ottuso a spiare intorno, avendo di mira solo scopi personali e il proprio materiale vantaggio, questi stessi pensieri perdono ogni forza e vigore, si svuotano, si sviliscono e non si riconoscono più. Si può anzi decisamente affermare che tal fatta di cervelli si comporta come quegli specchi curvi che di tutte le cose rimandano immagini distorte e stravolte, e nei quali la bellezza di una equilibrata simmetria è di colpo convertita in qualcosa di orribile. Le teorie filosofiche possono essere comprese soltanto attraverso i loro formulatori; chi si sente quindi portato alla filosofia deve frequentarne gli immortali maestri nel santuario delle loro stesse opere. Saranno invero sufficienti per ogni filosofo i capitoli fondamentali di un suo scritto per comprenderne cento volte meglio la dottrina di quanto non si ottiene attraverso le strascicate e manchevoli esposizioni di essa, operate da menti per di più ordinarie, irretite dalla moda e dalla filosofia del momento o dall’opinione più vicina al loro sentire. C’è di che stupirsi, perciò, nell’osservare come il pubblico sia di consueto nettamente orientato a preferire quelle esposizioni di seconda scelta. Mi sembra a tal proposito che si possa davvero chiamare in causa l’affinità elettiva, la quale ben evidenzia i motivi di certe attrazioni, per cui il fenomeno si potrebbe spiegare adducendo che ciascuna delle innumerevoli nature comuni, sentendosi attratta dalle nature che più le somigliano, solo da queste trova più gradevole ascoltare persino ciò che un grande spirito ha detto. Forse tale tendenza trova la sua giustificazione in quello stesso principio che legittima il metodo dell’insegnamento reciproco, secondo cui i bambini apprendono meglio le cose, se esse vengono loro spiegate da altri bambini.

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AI PROFESSORI DI FILOSOFIA

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Ancora una parola, e questa volta ai professori di filosofia. Ho sempre dovuto ammirare la sagacia e l’accorta e abile convenienza con cui essi hanno saputo prontamente riconoscere la mia filosofia, sin dal suo apparire, come qualcosa che si pone in totale dissonanza con le loro ambizioni, anzi come qualcosa di assolutamente pericoloso o, per dirla in termini più spiccioli, come ciò che non può trovare posto nella loro bottega. Sempre mi ha stupito l’abilità della loro sicura ed astuta politica, con la quale essi hanno immediatamente mostrato quale potesse essere da parte loro il solo e più giusto contegno da tenersi dinanzi ad essa; come pure non ha mai smesso di meravigliarmi la piena unanimità con cui tale comportamento sia stato diffusamente osservato, unitamente alla perseveranza di cui essi hanno dato prova nel mantenersi fedeli ad una simile condotta. Tutto ciò, ogni volta, con grande meraviglia io ho dovuto ammirare. Questo modo di fare, peraltro quanto mai vantaggioso per l’assoluta facilità con cui può venir messo in atto, consiste notoriamente nell’assoluto ignorare, ovvero nell’«insegretire», per usare una maliziosa espressione di Goethe, la quale, con maggiore proprietà, ben definisce l’attivo adoperarsi nel tenere complicemente celato qualcosa di importante e di significativo. L’efficacia di questa tacita strategia del silenzio viene poi accresciuta dal clamore da coribanti col quale essi sogliono celebrarsi a vicenda e festeggiare la nascita dei loro figli spirituali; un’abitudine che costringe il pubblico a prestare loro continuamente attenzione e ad accorgersi della grande pompa con cui essi usano reciprocamente felicitarsi ad ogni più insignificante occasione. Chi mai potrebbe nutrire dubbi circa l’efficacia di una simile strategia? Naturalmente, nulla si può opporre al principio “primum vivere, deinde philosophari[2]. E in verità costoro vogliono vivere, e precisamente vivere di filosofia: da questa traggono sostentamento con moglie, figli e tutto quanto, nonostante il “povera e nuda vai tu filosofia” del Petrarca, e di conseguenza tutto essi osano in suo nome. La mia filosofia, al contrario, in nessun modo si adatta allo scopo di servirsene per poterci vivere. Proprio per questo essa è ritenuta priva dei requisiti primi ed essenziali per una ben retribuita cattedra di filosofia: in primo luogo essa manca del tutto di una teologia speculativa, che per l’appunto – a dispetto del povero Kant con la sua Critica della ragion pura – per costoro deve assolutamente costituire la parte fondamentale di ogni filosofia, e alla quale si assegna il compito di occuparsi di cose che non si possono per nulla conoscere e su cui nulla si può argomentare. La mia filosofia, invece, non nomina neppure quella favola, astutamente escogitata dai professori di filosofia e per essi divenuta così indispensabile, di una ragione che conosce, intuisce e percepisce in maniera immediata e assoluta. E infatti, se si ha l’accortezza di dare a bere ai lettori sin dapprincipio una simile fola, allora si può ben credere che essi potranno venire trasportati in carrozza e nel modo più comodo, come su di un tiro a quattro, in quel dominio che Kant assolutamente precluse alla nostra conoscenza, in quanto situato al di là di ogni possibile esperienza, dove poi, una volta che vi si sia entrati, ciascuno potrà subito trovare rivelati e in bell’ordine sistemati i dogmi fondamentali del cristianesimo moderno, giudaizzante e ottimistico. Che cosa può mai importare, dunque, a codesti signori della mia irriverente filosofia, che non porta profitti e che muove alla riflessione e al pensiero. Quale utile possono trarre costoro da un sistema che, senza guardare né a destra né a sinistra, sempre tiene fermo il suo timone verso quell’unica stella polare che altro non è che la pura, semplice, nuda, non remunerata, priva di amici e spesso perseguitata verità? In che modo può mai stare alla pari la mia filosofia con quella buona e benefica alma mater delle università, con quella madre nutrice e provvidente che, oberata da cento preoccupazioni e da mille riguardi, con grande cautela, con sfibrante circospezione e con passo incerto avanza, tenendo via via d’occhio il timor di Dio, le direttive del ministero, i precetti della chiesa locale, le richieste dell’editore, la clientela degli studenti, i buoni rapporti con i colleghi, il corrente andamento della politica, la moda momentanea del pubblico e chissà che altro ancora? E che cosa può avere altresì in comune la mia silenziosa e seria ricerca della verità con l’assordante diatriba scolastica delle cattedre e delle aule, il cui più intimo movente sempre consiste in squallide mire personali? I due modi di fare filosofia sono perciò radicalmente eterogenei; né tanto meno si può trovare in me la minima disposizione al compromesso e al facile solidarismo: con me trova la sua massima soddisfazione soltanto chi sia sinceramente interessato alla verità, e quindi nessuno dei partiti filosofici del momento potrà mai trovare nella mia filosofia qualcosa di masticabile, giacché ciascuno di essi è proteso a perseguire unicamente il proprio tornaconto, mentre io non ho da offrire che concezioni disinteressate, che nessuno di essi può trovare convenienti, perché sono il prodotto di una ricerca dalla quale è rimasta totalmente esclusa ogni finalità materiale. Altri tempi dovrebbero invero sorgere perché la mia filosofia divenisse degna materia di insegnamento: sarebbe davvero bello se questo mio lavoro, che in alcun modo può essere sfruttato per fini di lucro, uscisse un giorno all’aria e alla luce per godere una buona volta di più ampia considerazione! Ed era proprio questo, in definitiva, che si voleva impedire, che la mia riflessione giungesse al vasto pubblico, per cui tutti dovevano fare fronte unico contro di essa, come fa una masnada di furfanti nello schierarsi contro un solo uomo. Ma non si può avere buon gioco tanto nell’impostura quanto nel discutere e nel confutare. Quest’ultimo mezzo è anzi pericoloso per chi predilige il basso espediente, perché attira l’attenzione del pubblico sulla cosa fatta oggetto di discussione, generando verso di essa curiosità. E allora potrebbe accadere che la lettura dei miei scritti produca, almeno in una parte del pubblico, la perdita del piacere di leggere le fumisterie dei filosofi di professione. E questo naturalmente perché chi ha avuto modo di assaporare, anche una volta soltanto, un pensiero originale e serio, non può più provare gusto per nessun altro pensiero che non regga il confronto con quello, soprattutto se poi è anche noioso. È per questo che la strategia del silenzio, così concordemente dispiegata contro di me, rimane l’unico sistema che si potesse escogitare per impedire alla mia opera di raggiungere il grande pubblico. Ed è proprio questo il genere di condotta in cui io consiglio vivamente di rimanere e di perseverare finché sarà possibile, ossia fino a quando tale condotta non verrà definitivamente tacciata di presunzione e di ignoranza, perché soltanto allora si potrà sperare in una svolta. Nel frattempo, si capisce, chiunque lo voglia, potrà sempre al bisogno strapparmi qua e là, a suo piacere, qualche piccola piuma da usare a proprio ornamento, dato che la mente di costoro, che certo non spicca per esuberanza di pensieri, sembra trovare sovente difficoltà a reperire quanto le occorre tra le cianfrusaglie di cui la casa comune abbonda. In tal modo, si può stare certi che il sistema dell’ignorare e del tacere si trascinerà ancora per un pezzo, almeno per il tratto di tempo che ormai mi resta da vivere: e sarà già tanto di guadagnato. Difatti, seppure nel frattempo qualche timida voce indiscreta si facesse qua e là sentire, essa verrebbe subito subissata dall’altisonante verbosità dei cattedratici, che con le loro grandi arie d’importanza sono abilissimi a intrattenere il pubblico e a sviarne da tutt’altra parte l’attenzione allorché la situazione rischia di volgersi a loro sfavore. Rinnovo pertanto a costoro il mio consiglio di attenersi compattamente, e in modo ancora più rigoroso, alla loro regola di condotta, sorvegliando soprattutto i giovani, i quali, come è noto, sanno essere talvolta quanto mai indiscreti. Ma anche così, io davvero non so dire, per parte mia, quanto a lungo un tale encomiabile contegno possa ancora durare, né so immaginare a quale scopo risponda e a quali esiti ultimi possa approdare. Certo che è una ben curiosa faccenda quella del pubblico, e di un pubblico, dico, così buono e mansueto da lasciarsi nell’insieme tanto docilmente governare. Naturalmente, avendo visto in ogni tempo stare quasi sempre a galla i Gorgia e gli Ippia, e ogni assurdità dominare incontrastata la realtà umana, può apparire impossibile che la voce di un singolo possa sollevarsi sul coro degli abbindolatori e degli abbindolati. Ciò nondimeno, è pur necessario riconoscere come le opere di autentico valore riescono a produrre nel tempo i loro speciali effetti attraverso un’azione silenziosa, lenta e potente, che le porta via via ad innalzarsi, finché non le si vede apparire, quasi come per miracolo, al di sopra del generale tumulto, simili a un aerostato che, portandosi fuori dalla sfera dei densi vapori di questo spazio terrestre, si elevi verso più alte e incontaminate regioni, nelle quali, una volta giunto, se ne sta indisturbato, senza che nessuno più possa rimuoverlo dalla sua posizione.

Scritto in Francoforte sul Meno, febbraio 1844


[1] “un breve corso di scienza del senso comune”.

[2] “anzitutto vivere, poi filosofare”.

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