La filosofia del divenire di Eraclito

Ciro A. R. Abilitato

ERACLITO DI EFESO
LA FILOSOFIA DEL DIVENIRE

Situata alla foce del fiume Càistro, sul Mar Egeo, Èfeso era un’antica città della Jonia, ossia di quella regione costiera dell’Asia Minore che tra il XIII e il IX secolo a.C. fu colonizzata dagli Achei che vi emigrarono sotto la spinta dei Dori. Nel VI secolo, dopo forte resistenza, fu sottomessa da Creso, re di Lidia, passando poi ai Persiani dopo che quest’ultimo re fu abbattuto da Ciro il Grande. Intorno al 550 a.C. vi nacque Eràclito (o, alla latina, Eraclìto), filosofo presocratico di cui si sa pochissimo, in quanto la sua vita si confonde in gran parte con la leggenda che il carattere enigmatico della sua persona alimentò. Diogene Laerzio (IX, 1-17) ce lo presenta come un genio stravagante, focoso e fiero, di origine aristocratica, mentre Teofrasto lo definisce un ispirato dal temperamento malinconico, una qualifica questa che si collega alla leggenda dell’Eraclito piangente piacevolmente svolta da Luciano di Samòsata nelle Sètte all’incanto. Contemporaneo del poeta Ipponàtte, suo concittadino, Eraclito era un discendente dei re di Efeso, ma nella sua città natale, dove la nobiltà del suo sangue gli avrebbe consentito di ricoprire cariche di primo piano, egli rifiutò ogni titolo onorifico in favore del fratello. Visse isolato, lontano dalla politica, contrastando la mentalità comune, che disprezzava per i suoi aspetti grossolani e ridicoli, ritenendola espressione del torpido pensiero dei dormienti, e perciò il luogo privilegiato dell’errore. Quando una rivoluzione democratica cacciò da Efeso il suo amico Ermodoro, scrisse che facendo questo e consegnando la città nelle mani dei loro giovani e inesperti figli, era come se gli Efesini si fossero detti: «Nessun uomo eccellente sia tra noi, e se per caso ve ne fosse ancora rimasto qualcuno, se ne vada altrove, tra altri uomini!» (fr. 121, Diels). Quindi, pure essendo la sua città una roccaforte dei democratici, egli sostenne un indirizzo politico di tipo conservatore, rifiutandosi anche di venire incontro alla dirigenza popolare che gli aveva chiesto di stendere la nuova costituzione. Qualche eco di questa polemica antidemocratica è testimoniata in vari frammenti della sua opera, dove spesso il filosofo fa distinzione tra “i migliori” e “i più”; un’antitesi riproposta svariate volte e in modi diversi, come quando parla dei “dormienti” e degli “svegli”, intendendo riferirsi con la prima qualifica a coloro che non avendo una solida cognizione delle cose, vagano alla cieca nell’oscurità dell’incertezza e dell’opinione, e con la seconda a coloro che, al contrario, sogliono esprimersi sulle cose conoscendone la comune ragione.

Disgustato dunque dai suoi concittadini, Eraclito si sarebbe infine ritirato nel tempio di Artemide Efesia, a cui avrebbe destinato un lascito testamentario e il compito di custodire la sua opera, che egli scrisse in forma di sacro discorso. Gravemente malato, morì intorno al 480 a.C., a circa settant’anni, rifiutando ogni cura, sbranato dai cani sulla piazza di Efeso. È certamente sulla sua leggenda che sorse una originale tradizione popolare, quella delle cosiddette Lettere efesie: formule di tipo oracolare, di significato oscuro, cui si attribuivano poteri portentosi, e che per questo venivano riportate su medagliette e amuleti per la protezione personale da ogni male e pericolo.
La fama di Eraclito si diffuse in tutto il mondo antico attraverso la sua opera in prosa, che per lo stile immaginoso ed enigmatico, disseminata di antitesi e di aforismi, gli valse il proverbiale appellativo di “Tenebroso” (ó Skoteinós). Verosimilmente quest’opera, di cui restano circa centotrentacinque frammenti, oltre a numerose testimonianze indirette, riceveva il nome dal suo stesso incipit, che era: «Eraclito efesio dice questo…», ma in seguito le fu attribuito il titolo che tutti i fisiologi usavano per i loro scritti di identico genere, ossia quello di Perì physeos (Sulla natura delle cose). Il trattato ebbe subito diffusione dalle colonie ioniche dell’Asia Minore a quelle della Magna Grecia, tanto che il poema di Parmenide di Elea, di circa dieci anni posteriore, conteneva già numerosi riferimenti critici al pensiero del filosofo ionico.
Eraclito è passato alla tradizione come il “filosofo del divenire”, perché riconoscendo che ogni cosa è soggetta al tempo e al mutamento, e che anche ciò che sembra statico e fermo è in realtà dinamico, sosteneva che la forma dell’essere è il divenire, e il principio delle cose il Fuoco, un’energia che ha in sé il germe della materia. Quindi, in virtù di questa sostanza, il cosmo è in perpetua trasformazione, giacché l’energia è il principio donde derivano e a cui ritornano tutte le cose. Il movimento (tropé) è l’eterna condizione del Tutto, che è realtà in continua trasformazione: «Panta rèi» dice il filosofo «tutto scorre», ossia «tutto scorre e tutto fugge, nulla permane; nello stesso fiume son sempre diverse le acque in cui ci si bagna», e ancora: «Non è possibile immergersi due volte nel medesimo fiume, né toccare due volte un corpo e credere che sia lo stesso, perché gli stati cambiano in continuazione». Si riconosce tuttavia in questa concezione della realtà un ordine ciclico, perché «a causa del movimento, tutto si disperde e si ricompone, tutto viene e va» (fr. 91). E in effetti sono due le direzioni fondamentali del cangiamento: una è quella che Eraclito chiama “la via in su”, che si ha quando i vapori umidi salgono dalla terra e dal mare trasformandosi in nuvole, le quali a loro volta s’incendiano e ritornano al fuoco; l’altra è “la via in giù”, che si ha quando una parte del fuoco si condensa e si converte in mare, e una parte del mare fa nascere dalla propria morte la terra. Da una parte, perciò, l’energia si condensa trasformandosi in materia, dall’altra la materia si rarefà, tornando a trasformarsi in energia. Questo principio è fatto valere sia nella fisica degli stati della materia che nella teoria cosmologica, secondo cui la vita dell’universo ha anch’essa carattere ciclico. Poiché nell’avvicendarsi dei mutamenti che generano diversità, questi due movimenti inversi si compensano, la quantità totale di materia e di energia deve restare invariata; infatti: «Col fuoco si permutano tutte le cose, così come ogni merce con l’oro».
La teoria ha carattere dinamicistico e fa suo il principio di conservazione dell’energia: una sostanza unica chiamata fuoco assume forme diverse, a condizione che la sua quantità totale rimanga invariata e che sussista un equilibrio di compensazione tra le quantità delle diverse forme cui essa dà luogo in tutte le trasformazioni. Ma il filosofo tiene anche a precisare che nel corso degli scambi successivi tra materia ed energia, il fuoco guadagna sempre un po’ più terreno rispetto a tutto ciò che da esso si genera. Anche questa è un’intuizione sorprendentemente attuale, giacché richiama il secondo principio della termodinamica, secondo cui non tutta l’energia si trasforma in lavoro utile e ogni stato ordinato è destinato a degradarsi.
Il filosofo di Efeso sosteneva che «il fuoco è indigenza e sazietà», volendo dire con ciò che esso, essendo il generatore di ogni cosa, non ha bisogno di niente (perché sazio, bastante a se stesso), e nello stesso tempo che, costituendo uno stato indifferenziato, è dotato della massima potenzialità generativa (poiché indigente, è bisognoso di realizzare tutto ciò che è nelle sue possibilità per arricchirsi del molteplice). Ciò spiegherebbe tanto l’origine delle cose in virtù dei processi di rarefazione e condensazione, quanto l’origine dell’universo da un fuoco primordiale. Ciò nondimeno, ogni cosa sarebbe infine destinata a ritornare al fuoco: «Con l’avanzarsi degli scambi – dice – il fuoco finirà col giudicare e condannare tutte le cose» (fr. 66). Questi argomenti portano ad ammettere una cosmologia ciclica, e perciò un’alternanza di fasi di distruzione e di rinascita dell’universo. D’altro canto non sembra che Eraclito avesse escluso una èkpyrósis, ossia una conflagrazione universale, che è qualcosa di molto simile al big bang della teoria del grande scoppio caldo avanzata nel 1940 da Gamow: è la teoria della palingenesi cosmica, che troverà radicali sviluppi soprattutto con gli Stoici, secondo cui tutte le cose derivano dal fuoco e al fuoco ritornano al compiersi del ciclo del loro sviluppo. Pertanto, al termine di ogni anno cosmico, la conflagrazione universale (una sorta di big crunch) riassorbirà tutto quanto si era generato dal fuoco e che da esso dovrà nuovamente venire generato.

La filosofia eraclitea pone a fondamento del divenire universale l’opposizione e l’unità dei contrari. In base alla teoria dell’unità dei contrari, che spiega l’esistenza delle cose, il Cosmo è considerato come un tutto in sé perfettamente equilibrato, in cui ad ogni cosa corrisponde un contrario, sia sotto l’aspetto materiale che ideale; per esempio, la realtà materiale implica una realtà immateriale, che è la legge; la casa implica l’idea, cioè il progetto; l’impronta, l’animale che l’ha lasciata; la moneta, il conio; e così come c’è il bene o la perfezione, c’è il male o l’imperfezione, la giustizia e l’ingiustizia, l’alto e il basso, la destra e la sinistra, la salute e la malattia, la fame e la sazietà, e così via. C’è quindi stretta connessione tra i contrari, i quali, non potendo esistere l’uno senza l’altro, ma solo l’uno in ragione dell’altro, costituiscono tra loro un’unità. Ma c’è anche identità dei contrari, perché come la casa coincide perfettamente col progetto, così l’ordine naturale presuppone la legge di natura. In tal modo, in tutte le realtà particolari l’unità degli opposti realizza sempre pienamente l’Essere.
In base alla teoria dell’opposizione dei contrari, deve esserci tra questi un’azione reciproca generata dal loro contrasto, giacché in assenza di tale condizione, i due contrari si annullerebbero nel loro pacifico riunirsi. Invece, affinché sia assicurato il costituirsi e lo svolgersi della realtà, i contrari devono trovarsi in conflitto tra loro, in quanto la tensione tra l’uno e l’altro ha potenzialità generativa. I contrari sono perciò indistruttibili, nessuno prevale sull’altro. Quando in un tribunale si ha la vittoria secondo giustizia di una delle parti contendenti, non significa che si è sconfitta l’Ingiustizia, ma solo che è stata riconosciuta una forma particolare di giustizia relativamente a una forma particolare di ingiustizia. Il giudizio risolve la questione particolare affermando un principio di giustizia che non contraddice la norma generale, e che incoraggerà un determinato comportamento ritenuto favorevole alla società. Senonché, il giudizio non elimina né l’ingiustizia commessa, né l’Ingiustizia intesa in senso universale. Perciò, Giustizia e Ingiustizia esisteranno sempre, e saranno sempre in lotta fra loro. Tra l’altro, Giustizia e Ingiustizia non sono che un diverso modo di chiamare la Perfezione e l’Imperfezione; di conseguenza, il prevalere della giustizia o perfezione nell’ambito di realtà particolari assicura loro la continuità nel tempo e nello spazio in forme relativamente più evolute e stabili, mentre il prevalere dell’ingiustizia o imperfezione nell’ambito delle stesse realtà, conduce al decadimento del loro stato organizzato e alla loro estinzione; e questo senza che la Giustizia e l’Ingiustizia universali perdano o guadagnino qualcosa: esse sono solo gli opposti poli tra i quali il Tutto dipana la sua storia, che a sua volta si compone di infinite storie particolari. Se non ci fosse lotta fra i contrari, la vita sarebbe una quiete morta, e se non ci fossero i contrari, non ci sarebbe l’essere. Questa perenne opposizione tra i contrari, che Eraclito chiama Pòlemos “guerra, dissidio”, è il principio e la legge. Tutta la storia dell’universo si svolge come tra due poli di opposto segno, la cui opposizione e separazione è alla base del divenire.
Contro Omero, che incautamente auspicò: «Possa la discordia sparire tra gli dèi e gli uomini», sembra che Eraclito abbia obiettato: «Omero non s’accorge che prega per l’annientamento dell’universo, perché qualora la sua supplica fosse esaudita, tutto perirebbe». E non sembra che l’ombroso filosofo avesse tutti i torti, perché se gli opposti non fossero in lotta tra loro, è ben vero che la guerra di Troia non sarebbe stata combattuta, ma Omero, ammettendo pure che a questa condizione sia potuto esistere, non solo non avrebbe potuto scrivere di essa, ma non avrebbe potuto comporre nessun altro poema ponendo tra la prima e l’ultima parola 15688 esametri dattilici come nell’Iliade, né scriverne uno successivo mettendo uno dietro l’altro altri 12011 esametri. E naturalmente, nemmeno noi sapremmo niente di quella guerra, né di Omero, né di Eraclito.
L’esistenza è dunque lotta, perché «Polemos è di tutte le cose padre, di tutte le cose re» (fr. 53); altrove, invece, forse per evitare inutili “polemiche”, il filosofo dichiara: «… di tutte le cose madre, di tutte regina» (Diels, a 22), ma rimane assodato che «Polemos è la legge comune, e che la giustizia è lotta» (fr. 80).
La necessità fatale del contrasto si comprende dal fatto che esso costituisce ad un tempo il fattore fisso di ogni cambiamento e l’unico modo che consenta ai contrari di interagire tra loro per dare luogo a forme definite e relativamente permanenti dell’essere. Quindi, la discordia e l’instabilità sono necessari all’accordo, perché la vera ragion d’essere del contrasto è il nuovo che da esso deve sorgere. Ogni contrasto si risolve in una sintesi superiore che realizza in sé l’accordo dei discordi: «Ciò che in sé è discorde si accorda con se stesso – dice Eraclito – e la soluzione del contrasto è un’armonia per opposte tensioni, come nell’arco e nella lira» (fr. 51). L’arco sarà pronto a scoccare la freccia soltanto quando l’arciere lo avrà incurvato a sufficienza, allontanandone da sé l’impugnatura e, contemporaneamente, tendendone la corda verso la spalla, cioè producendo con movimenti contrari la tensione che gli occorre per colpire con la freccia un bersaglio lontano. Allo stesso modo, sulla lira potranno snodarsi le frasi musicali solo quando le corde siano sfiorate o pizzicate dalle dita del musico; il che significa che esse dovranno prima essere poste in tensione tra i due bracci dello strumento e accordate, e poi che la loro quiete dovrà essere disturbata in modo misurato dal movimento delle dita, così che ciascuna corda potrà produrre un suono diverso dalle altre e tutte un’armonia. D’altra parte, l’opposizione è regolata e limitata da leggi: così, ad esempio, il fatto che la corda sia inestensibile, consente di piegare l’arco, mentre il fatto che l’arco sia flessibile ed elastico, fa sì che esso ritorni diritto quando l’arciere rilascia la corda. «Quel che in sé discorda, in sé si accorda; da ciò che è differente nasce la più bella armonia; e tutto si genera secondo gara e contesa» (fr. 8). Le connessioni che si stabiliscono tra il compiuto e l’incompiuto, il concorde e il discorde, l’armonico e il disarmonico assicurano il costituirsi delle cose. Il diversificarsi della realtà, la sua continuità e il suo evolversi sono conseguenze della lotta dei contrari e del loro riconciliarsi in nuove strutture che li comprendono e li superano. Insomma, non ci sarebbe l’arco, né la lira, se non ci fossero proprietà quali la rigidezza e l’elasticità, il fisso e il mobile, l’alto e il basso, il dietro e l’avanti, e così via. Pertanto, la lotta degli opposti non genera né confusione né sgretolamento, ma un ordine vario di combinazioni di cui il tempo, che Eraclito riconosce come una dimensione fondamentale della realtà fisica, è l’agente.

Il tempo è ciò che consente, col concorso del caso, l’attuarsi di tutte le possibilità dell’essere: «il tempo è un fanciullo che si diverte a giocare a dadi: governo da fanciullo il suo!» (fr. 54). Quello che conta nella lotta dei contrari è perciò l’effetto, l’esito che si produce, che è sempre il risultato dell’agire e del concorrere di leggi. In natura vince sempre la ragione, perché la natura è ragione; e l’errore, che riguarda solo le realtà particolari, non è mai del tutto sterile di buoni effetti. Anche per gli uomini vale la stessa cosa; con l’unica differenza che l’uomo può decidere di se stesso, e dalle sue scelte dipende come si caratterizzerà lo stadio ulteriore che risolverà i suoi contrasti. Se qualcosa non funziona tra gli uomini, questo è un problema che riguarda soltanto gli uomini, non gli dèi o la natura.
La lotta tra i contrari assicura il realizzarsi dell’essere, e il superamento della loro opposizione il divenire. Tra i due poli dell’evoluzione e dell’involuzione, nel loro universale opporsi e compensarsi, si sviluppano nel tempo e nello spazio le realtà discrete, i cui stati si prolungano l’uno nell’altro secondo la legge del divenire. È così che il bambino assume con gradualità la costituzione corporea e la mentalità dell’adulto, e che questo può prolungare se stesso nella prole e trovare altre ed uleriori forme di continuità nello spazio e nel tempo. La lotta tra i contrari si risolve e si ripropone nel continuo passaggio da uno stadio al successivo secondo soluzioni e strategie diverse: «Dentro di noi è una stessa cosa il vivente e il morto, e il desto e il dormiente, e il giovane e il vecchio: queste cose, infatti, trasformandosi, son quelle, e quelle a lor volta trasformandosi son queste» (fr. 88). In altre parole, tutte queste cose si trovano in ciascun uomo. Non è difficile per noi oggi comprendere questa teoria, se solo si pensa agli acidi nucleici presenti nelle cellule dei viventi e in cui sono codificate tutte le informazioni necessarie alla vita di ogni singolo individuo secondo la sua specie.
Per Eraclito l’intimo principio dell’universo è una Ragione che interamente lo pervade e che egli indifferentemente chiama Pirós (Fuoco) o Lògos, riferendosi col primo termine al principio fisico delle cose e col secondo alla legge universale che le governa. Sebbene questa nozione divenga piuttosto incerta nell’interpretazione datane dagli Stoici, che nel tramandarcela hanno ad essa sovrapposto i loro interessi dottrinali, identificandola col destino, il lògos a cui Eraclito sembra appellarsi incarna sia un principio fisico che una legge, e come tale costituisce la “ragion d’essere” della realtà; ma nello stesso tempo rinvia anche al concetto di “ragione” come “discorso”, e in quanto tale il logos si rivelerebbe attraverso la coerenza e la verità della parola. Conoscere è infatti homologhèin, «dire in accordo al logos» (fr. 50), convenire con la ragion d’essere degli eventi. Oltre che come fuoco, altri frammenti parlano del lògos universale come kòsmos, ossia come “ordine, universo”, e come psiché, “anima” o “spirito vitale”. Si tratta comunque sempre dell’“armonia segreta” dei contrari, quella che realizza in sé la coincidenza degli opposti. È la stessa armonia per cui coincidono la via ascendente e discendente dei cicli naturali o la fine e l’inizio di un circolo. Tale armonia è il “buon ordine” comune a tutto e a tutti, ingenerato ed eterno.

Come anima il logos è il principio dei viventi, quello che riproduce su di un diverso piano lo stesso ordine che si osserva in natura. Non è però niente di materiale, perché il suo mutarsi in materia fa sì che non sia più anima ma corpo; infatti, ricorrendo a un’immagine, Eraclito asserisce che: «per le anime è morte farsi acqua, come per l’acqua è morte farsi terra: dalla terra nasce l’acqua, dall’acqua l’anima» (fr. 36). L’anima è un’esalazione calda, perché per conoscere il principio deve averne la stessa mobilità; al pari di lui deve potersi diffondere dappertutto, deve governare il corpo come il fuoco governa il mondo, e come il fuoco potersi trasformare. È a quest’ultima attitudine che forse il filosofo attribuisce la capacità rigenerativa dei tessuti e quella procreativa degli individui. In quanto emanazione calda, l’anima è dunque asciutta, e la più asciutta è la più saggia. Quando è inumidita, come avviene nell’ebrietà, essa si corrompe e rischia la morte.
Quando si dorme è come se il nostro fuoco rimanesse sopito sotto la cenere, sicché al risveglio, quando usciamo dal torpore del sonno e ricominciamo ad aspirare il fuoco che è in tutto, simili a tizzoni ci riaccendiamo. Ma la veglia vera è quella in cui vivi o morti, assopiti o no, scorgiamo «la comunanza di tutte le cose e l’unità del cosmo» (fr. 89). Per Eraclito l’individualità della vita è una morte, e l’immortalità consiste nel vivere in sintonia col Tutto: «immortali e mortali, mortali e immortali, vivono l’uno dell’altro la morte, e l’uno dell’altro muoiono la vita» (fr. 62). Tutti gli esseri particolari hanno un’anima. Anzi, essi possono essere quel che sono, secondo le forme che sono loro proprie, in virtù di un processo di individualizzazione dell’anima universale; ma a differenza di tutti gli altri esseri, l’anima personale degli uomini, a causa delle qualità cui ha messo capo l’evoluzione naturale della specie, deve volontariamente ricercare le ragioni di se stessa aprendosi al contatto con l’anima universale, da cui in effetti sempre dipende. Quando non fa questo, essa restringe la sua esperienza della realtà esclusivamente a cose particolari, da cui ricava una visione distorta ed errata del mondo. In tal modo essa diviene allora come un tizzone acceso che man mano si spegne, perché ha perso il contatto col fuoco generatore. In pratica, l’anima personale non può disconoscere la sua dipendenza dall’anima universale, giacché non è fatta per essere paga di se stessa, bensì per aprirsi coscientemente al Lògos. Sotto questo aspetto Ade e Dioniso sono uno stesso dio (fr. 15), e come per il mondo la conflagrazione totale segna la nascita di un nuovo universo, la morte è per l’uomo una vita che rinasce.
Tutto accade secondo il Lògos, perché esso è legge assoluta che unifica la molteplicità delle cose nella sua totalità. Il molteplice e il cambiamento rivelano l’unità profonda della realtà conformemente al principio: da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose. «Armonia invisibile, migliore di quella visibile» (fr. 54), il logos è comune a tutti, viventi e non viventi: vale per la realtà fisica, che ne è l’espressione più direttamente accessibile all’esperienza, così come per quella biologica, che ne è una più complessa manifestazione; vale per gli animali in virtù del loro istinto, e per gli uomini in virtù della loro ragione; vale per la società organizzata, che rappresentando un ulteriore livello di sviluppo nel processo evolutivo della specie umana, abbatte i limiti cui è soggetto l’individuo, e così via; vale insomma per tutto e per tutti, perché questa Ragione si prolunga nel continuo che abbraccia le realtà discrete e che in queste si rivela per come sono e per come si concatenano nel ritmo incessante delle opposizioni.

Dunque, «da tutto uno e da uno tutto»; c’è un’unica legge divina, alimento di tutte le leggi umane. È una legge non scritta, che si contrappone al pensiero arbitrario; una forza che è propria tanto dell’umanità intera quanto del singolo individuo, perché così come la forza della città risiede nella bontà delle sue leggi, quella dell’individuo consiste nel regolare la sua vita secondo ragione. Questa “forza di ragione” è comune a tutti, «domina tanto quanto vuole» e «basta a tutto, e su tutto ha vittoria» (fr. 114). In breve, è la legge universale della realtà, identica a quel «pensiero a tutti comune» su cui Eraclito non si stanca mai di insistere, ma che non è il pensiero dei molti, né il molto sapere dei pochi, bensì proprio quel pensiero a tutti comune che resta per lo più inosservato dagli uomini, i quali sono sempre e solo interessati alle cose particolari e concrete. Pur trovandosi il logos nelle forme più familiari della ragione, esso rimane inascoltato dalla maggioranza degli uomini: «I più non comprendono ciò di fronte a cui si trovano, né lo sanno riconoscere quando lo abbiano appreso da altri, e tuttavia credono di saperlo» (fr. 17).
Fin dall’inizio della sua opera, Eraclito non fa mistero del suo intento di criticare l’incomprensione degli uomini del lògos universale: «Di questo Logos verace – dice – gli uomini sempre inconsapevoli restano, sia prima di averlo ascoltato, sia una volta che l’abbiano ascoltato. Tutto infatti avviene secondo questo logos, ma essi rimangono sempre come inesperti, pur sperimentando che le mie parole coincidono con i fatti, e che questi sono appunto come io li espongo, distinguendoli secondo la loro natura e spiegando come stiano le cose. Tuttavia agli altri uomini rimane nascosto quel che fanno da desti, come non sanno quel che fanno dormendo» (fr. 1).
Da qui procede la teoria della conoscenza del filosofo. Il logos è il pensiero divino che circola eternamente nel Tutto e che assume una sua forma nell’intelletto umano, il quale lo esprime pienamente solo quando si solleva al di sopra dell’esperienza parziale e personale delle cose, ossia solo quando, liberandosi di tutti gli aspetti legati all’individualità, perviene alla conoscenza delle leggi che stanno a fondamento del reale. Tale conoscenza è l’unica che risulti utile per l’uomo, perché su di essa egli può regolare tutte le scelte che hanno relazione con le sue attività pratiche, e migliorare le condizioni della sua esistenza. Secondo Eraclito, solo chi giunge a questa consapevolezza liberandosi da ogni condizionamento, è in grado di uscire dal “dormiveglia” quotidiano e di intendere quelle leggi oggettive e comuni del mondo che si impongono ad ogni mente pensante per la loro stessa evidenza: «Chi vuol parlare con intelligenza deve farsi forte di ciò che è comune a tutti» (fr. 114). Tuttavia gli uomini non pensano che ad accumulare cognizioni particolari, ritenendo che il “pensiero comune” cui bisogna uniformarsi sia o quello della moltitudine o quello di coloro che sanno molte cose. È questa un’aperta condanna non solo dell’opinione volgare, ma anche della polymathìe, che è sia il sapere fatto di molte nozioni ma vagante alla superficie delle cose, sia il sapere troppo specialistico dei cultori delle tecniche e delle discipline particolari, che di fatto porta a rimanere prigionieri di ottiche parziali. Eraclito si oppone inoltre alla spregevole e funesta multiscienza dei Pitagorici (fr. 40), che per il suo carattere categorico e indiscutibile impedisce una visione oggettiva della realtà. Tutto ciò che serve è invece saper ragionare sulle cose, trovare nessi e spiegazioni, non il grande sapere acritico né la sterile erudizione. Pertanto, così come è inutile accumulare tante conoscenze particolari e non saper ritrovare la ragione comune delle cose, allo stesso modo è del tutto vana quella eccessiva specializzazione del sapere che impedisce una visione complessiva, diretta e non particolaristica della realtà. È peraltro dannoso ridurre la scienza ad articolo di fede, come fa Pitagora, o a pura memoria di fatti, o a ozioso questionare sulle cose, come fa il popolino al solo scopo di esercitare la voce. Per quanto riguarda il dogma pitagorico, esso è solo un modo che serve a tramandare in forma inalterata un sistema di conoscenze trasformate in un credo, non la conoscenza. Per la scienza, che è innanzitutto spirito critico, non possono esistere dogmi, ossia sistemi chiusi di verità che si sottraggano all’indagine e alla comprensione, perché credere in cose che non si capiscono è dannoso tanto per l’individuo quanto per la collettività. Non esistono dogmi imperscrutabili, ma solo verità chiare e limpide che dobbiamo abituarci a vedere. Non si può rimanere da spettatori dinanzi alla realtà senza chiedersi il perché e il percome delle cose. E poiché nemmeno si può credere ciecamente a ciò che si sente dire, ciascuno deve esercitare la propria capacità di pensiero. Nondimeno, i più «preferiscono la spazzatura all’oro» (fr. 104 e 9); essi infatti non scelgono il pensiero che è a tutti comune, bensì la mentalità comune, e così facendo si mettono, simili ad asini, alla sua scuola, ripudiando il vero per accettare con ossequio ed entusiasmo la diceria e la fandonia. Saggio è invece chi, adottando adeguate misure nei confronti delle ingannevoli idee comuni e delle false evidenze di cui si nutrono “i più”, sa riflettere e scandagliare con acume la propria anima. Questa, invero, non avendo confini, offre il campo ad una ricerca senza fine: «Io – dichiara Eraclito – ho indagato me stesso» (fr. 101), «Tu, per quanto innanzi ti spinga, non troverai i confini dell’anima, tanto profonda è la sua ragione» (fr. 45).
Come esplicitamente dichiara nel frammento 1, ossia all’inizio del suo libro, Eraclito non intende contrapporre orgogliosamente alle opinioni dei dotti o dei molti il suo pensiero personale, ma solo affermare la verità del reale. È questa l’unica vera ed eterna verità di cui egli vuole farsi ispirato profeta: «Saggia cosa è – dice – prestare ascolto non a me, bensì al Pensiero, e riconoscere che tutto è uno» (fr. 50).
L’individualismo del pensiero, quest’illusione che ciascuno possegga «un proprio personale modo di intendere» (fr. 2), è l’errore comune di chi non riesce a spingersi oltre la superficie delle cose, è la caratteristica di tutti coloro che rimangono vincolati all’esperienza sensoriale. Eraclito ha affermato con vigore la relatività della conoscenza sensoriale, che non può esaurirsi in se stessa, in quanto funzionale alla comprensione e al pensiero. I nostri sensi sono “cattivi testimoni”, giacché l’anima, come un giudice, ha il compito di interpretarli e di intendere il mistero del loro linguaggio. Quando l’anima non fa questo, essa è in uno stato rozzo (fr. 107), e di conseguenza l’individuo rimane in balìa delle sensazioni; e questo perché, mentre il pensiero «dà a se stesso il proprio accrescimento» (fr. 115), le sensazioni rimangono alla dipendenza dei contrari. I sensi sono il mezzo con cui il pensiero del singolo entra in contatto con la realtà concreta; se il pensiero non è esercitato nel giusto modo, non si potrà mai avere conoscenza sicura, perché è esso che realizza in sé l’armonia dei contrari e del molteplice. Un uomo che si affidi esclusivamente alla sensazione non può scorgere alcuna armonia nelle cose: è come se, pur potendo vedere pareti, porte, finestre, tavoli e sedie non potesse tuttavia accorgersi della casa.

Non c’è dubbio, quindi, che al di sopra della conoscenza sensoriale, Eraclito ammettesse una conoscenza di tipo scientifico fondata su leggi. Aristotele sostenne tuttavia che per il filosofo di Efeso non poteva esistere né scienza né verità, e questo proprio per la sua dottrina fondata sul perenne fluire delle cose sensibili, per la quale si dovrebbe credere che nello stesso tempo A sia A e che A non sia A. Secondo Aristotele, ammettere una simile cosa sarebbe assurdo, perché porterebbe a negare il principio di non-contraddizione (Metaph., Γ, 3, 1005b; Phys., Ι, 2, 185b). Aristotele diede di questo fondamentale principio della scienza una duplice formulazione, una ontologica e una logica; la prima si può esprimere così: «Niente simultaneamente può essere e non essere» (Met., III, 2, 996b 30; IV, 2, 1005b 24); la seconda si esprime dicendo: «È impossibile per la stessa cosa, nello stesso tempo, inerire e non inerire ad una medesima cosa sotto lo stesso riguardo» (Met., IV, 2, 1005b 20); o anche: «È necessario che ogni asserzione sia o affermativa o negativa» (Met., III, 2, 996b 29). In altre parole, non possono sussistere contemporaneamente due stati contrari in una stessa e unica cosa. Eraclito afferma invece proprio l’opposto, e cioè che la realtà si fonda sull’opposizione dei contrari, come amore-odio, movimento-quiete, potenzialità-attualità, ecc., e che le cose cambiano in continuazione. Anzi, asserisce che nello stesso tempo una cosa è e non è, e che un’asserzione che nega in pari tempo afferma, e viceversa. In sostanza, calandoci nella concezione eraclitea, potremmo dire che qualora non si riconoscesse che la realtà è fondata sull’opposizione dei contrari, sarebbe del tutto impossibile concepire una cosa come il principio di non-contraddizione. Dire A e non-A, significa sostanzialmente distinguere due contrari, e quindi già rendere operante il principio di non-contraddizione, cosa che non potrebbe avvenire se ci fermassimo alla sensazione: il principio di non-contraddizione è perciò un caso particolare del principio di distinzione di Eraclito, e un principio non assoluto ma relativo. Il riconoscere che in un determinato momento un oggetto è una certa cosa e non un’altra, implica il distinguere tra ciò che l’oggetto è e ciò che esso non è, ossia il discernere quel che l’oggetto non è contestualmente a quel che è. In altre parole, il nostro giudizio non può mai essere assoluto, ma sempre relativo, perché riferirsi a una cosa determinata significa sempre distinguerla da un’altra o da molte, ovvero farla risaltare rispetto al contesto con cui essa ha relazione. In effetti, nel riferirci a un certo oggetto, noi non facciamo altro che focalizzare la nostra attenzione su un oggetto preciso facendolo emergere dal tutto, perché ciò che davvero ci sta davanti è tutta realtà, non un singolo oggetto di essa. Quindi, nello stesso tempo, una cosa è e non è, perché fare riferimento a una cosa particolare significa astrarla da un contesto, in quanto ogni evento, cosa o proposizione è in stretto rapporto con altri eventi, cose o proposizioni che ne costituiscono il contesto; e il contesto di ogni cosa è tutta la realtà che la nostra coscienza ci pone davanti. E allora, se affermiamo qualcosa, nello stesso tempo respingiamo tutto ciò che discorda con essa, e accogliamo tutto ciò che con essa concorda; e lo stesso è se neghiamo. Solo considerando questo rapporto tra parola e contesto, il discorso può acquistare la massima precisione ed assumere un senso chiaro ed univoco. Fichte chiamava “principio dell’opposizione” il principio di non-contraddizione, definendolo come l’atto con cui l’Io oppone a se stesso un non-Io, cioè un’altra cosa o realtà riconosciuta dall’Io come diversa da sé. Tuttavia, Eraclito, pur mantenendo fermo il principio di distinzione, che è quello per cui si ha coscienza della molteplicità del reale, tendeva al superamento della netta separazione dell’Io dal non-Io in virtù di un sentimento cosmico di comunione col Tutto. Ciascun uomo deve andare oltre la propria individualità per entrare in sintonia col divino Logos che è nell’universo.
Per certi versi, la teoria eraclitea della conoscenza richiama quel modo della percezione che i gestaltisti indicano come rapporto figura-sfondo, e che si spiega ammettendo che il tutto, nell’elaborazione percettiva, è diverso dalla semplice somma delle parti. Il porre in evidenza un oggetto del pensiero equivale allora a farlo emergere chiaramente dal contesto, mentre il renderlo distinto richiede un’ulteriore elaborazione il cui scopo è quello di restituire l’oggetto alla rappresentazione nella forma più definita e precisa possibile, vale a dire completo di tutti i suoi significati e di tutte le sue relazioni col tutto.
Circa la teoria eraclitea della conoscenza applicata al divenire, si può seguire un ragionamento analogo a quello svolto per l’opposizione dei contrari considerati come oggetto-contesto. Qualora in un determinato momento osserviamo un albero, c’è da aspettarsi che in un momento successivo lo stesso albero possa non essere più esattamente quello di prima, e non solo perché sarà trascorso del tempo e potranno essersi avuti nell’albero dei cambiamenti più o meno sensibili, ma anche perché la rappresentazione della realtà nella nostra mente non sarà più esattamente quella di prima. La mente, infatti, a prescindere dai mutamenti dovuti all’umore, è quanto di più reattivo ci sia in natura. Per questo motivo, quando parliamo di una cosa qualsiasi, sia essa una casa, un albero, un paesaggio o una partita di calcio giocata al San Paolo, noi ne consideriamo solo alcuni aspetti (quelli che al momento ci interessano), relegando in un piano secondario tutti gli altri, i quali non spariscono dalla coscienza, ma rimangono sullo sfondo della nostra rappresentazione del reale. Quando poi, in un tempo successivo, si avrà occasione, se se ne avrà, di riprendere lo stesso argomento, il nostro racconto non sarà identico a quello fatto in precedenza, perché il discorso, mettendo di nuovo in risalto ciò che ci interessa, verrà adattato alla nuova circostanza, e questo sempre attingendo alla nostra rappresentazione della realtà. Questo argomento è ricchissimo di sviluppi, perché da esso segue che il linguaggio rende possibile la comunicazione tra gli individui proprio perché ciò che la parola trasmette è sempre relativo a un contesto, che nell’ambito dei rapporti interpersonali è il contesto comune agli individui che comunicano e, al limite, quello proprio di una moltitudine di individui nell’ambito di una cultura. È grazie al contesto comune che la parola può caricarsi di infiniti significati connotativi, consentendo all’atto comunicativo di assumere pregnanza anche rispetto al non detto.
Per un principio di economia proprio della mente, l’oggetto del nostro discorso è quindi sempre un’astrazione, utile e necessaria ai fini della comprensione e della descrizione della realtà, ma un’astrazione che solo la mente può operare in virtù della sua capacità di sintesi. È questo che intendeva Eraclito quando sosteneva che noi dobbiamo cogliere quel che è comune e costante nel molteplice e nel mutevole, e nel far questo attenerci a un corretto pensare, cioè pervenire a un’evidenza che superi gli aspetti particolari e transitori della realtà. La concezione di Eraclito è oggettivistica, e il suo principio di distinzione contestualistico, quindi più generale del principio di non-contraddizione, che ha invece carattere analitico. Detto diversamente, i due principi sono correlativi, in quanto si postulano e si giustificano reciprocamente, proprio come è per i contrari della teoria eraclitea.
Nel XIX secolo, Hegel, vedendo in Eraclito il lontano maestro e fondatore della dialettica oggettiva, dichiarò che non c’era una sola proposizione del filosofo di Efeso che non avesse accolto nella sua logica. Hegel considerava il principio di non-contraddizione, unitamente a quello di identità, come «la legge dell’intelletto astratto», ma sostenne che la dialettica, intesa in senso platonico come ricerca della verità per mezzo del dialogo, richiedesse il sacrificio di tale principio in favore della “legge della ragione speculativa”, che era per lui la radice di ogni movimento e di ogni vita e il fondamento stesso della dialettica. Infatti, quale attività cosciente e razionale, la dialettica realizza in sé l’identità degli opposti continuamente conciliando e risolvendo le contraddizioni. Di conseguenza, poiché “ogni cosa si contraddice in se stessa”, funzione precipua della dialettica è togliere l’opposizione fra la tesi e l’antitesi al fine di pervenire a una sintesi che conservi quanto c’è di vero nell’una e nell’altra.

Viste le cose sotto questa luce, si può ritenere che le critiche di Aristotele fossero indirizzate non tanto ad Eraclito, bensì a quei fanatici, già presi apertamente di mira da Platone (Theaet., 179 sgg., cfr. Crat. 334a), ai quali il mobilismo di Eraclito non sembrava abbastanza radicale, e che sostenevano che neppure una volta l’acqua del fiume fosse identica a se stessa. Tali pseudo-eraclitei di orientamento scettico, che di fatto negavano ogni possibilità di conoscenza della realtà, erano quelli che per esprimere il proprio pensiero preferivano al linguaggio che lo immobilizza un semplice cenno. Tra essi era quel Cratilo di Atene di cui Platone avrebbe ascoltato l’insegnamento prima di conoscere Socrate. Cratilo, come dice Platone nel dialogo che prende il titolo dal nome del filosofo di cui esamina il pensiero, cercava di conciliare tesi inconciliabili, ed era quello che sosteneva che il linguaggio avesse in sé un’esattezza oggettiva non in virtù dei significati che esprime, ma di un rapporto naturale tra il suono delle parole e le cose che esse designano. Aristotele dice invece che Cratilo soleva portare alle estreme conseguenze la tesi eraclitea della realtà come continuo divenire, sostenendo che ogni giudizio sulle cose è arbitrario, perché essendo la sensazione fallace e la realtà mutevole, è impossibile pervenire a verità universali (Metaph., Α, 6; Γ, 5, 1010a). Ma Eraclito cercava l’armonia dei contrari, non già l’identità dei contraddittori; e la sua dottrina intendeva contrapporre alla dispersione della conoscenza sensoriale, che non va oltre gli aspetti passeggeri del divenire, la verità della conoscenza unica, la cui legge è la trama continua e il substrato della cangiante diversità.
La teoria eraclitea sfocia in una concezione panteistica del Tutto, e in particolare in un panteismo fisico, che identifica l’Universo con Dio, inteso come unità dinamica di tutti i contrari. «La divinità è giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sazietà-fame. Essa muta come il Fuoco» (fr. 67). Il Dio-Tutto che comprende in sé ogni cosa, costituisce una realtà increata che esiste da sempre e per sempre; «L’ordine cosmico  sostiene il filosofo  è lo stesso per tutti gli esseri: non lo fece nessuno degli dèi o degli uomini, ma fu sempre ed è, ed eternamente sarà fuoco sempre-vivente, che secondo legge [o misura] si accende e secondo legge [o misura] si spegne» (fr. 30). Una «saggezza unica», che «vuol essere chiamata Zeus» e che, in pari tempo, «non lo vuole» nel senso della religiosità popolare, e che consiste nel sapere «che c’è un Pensiero che governa tutto mediante tutto» (fr. 32, 41). Questa Legge o Pensiero è un Lògos immanente, la stessa sostanza di quelle permutazioni che producono la varietà delle cose, ossia il Fuoco, che è quel che c’è di più incorporeo, di più mobile, di più trasformabile, di più attivo, di più vivente.

Biasimando la mentalità bigotta, i comportamenti superstiziosi del volgo e l’uso di rivolgere preghiere a statue di pietra nella totale ignoranza di quale sia la vera natura divina (fr. 5), Eraclito sostiene che la vera fede consiste nel fondere il proprio pensiero col Pensiero divino che è nell’universo: «adorare delle immagini è lo stesso che parlare col muro». Con questa affermazione l’oscuro filosofo di Efeso è come se avesse detto: se si adora un’immagine, non si fa che venerare un oggetto; se invece si adora nell’immagine un dio, allora l’immagine non è che un simbolo del dio: ma quale sarà il dio, cioè il concetto che se ne ha, rappresentato dal simbolo? Dai motivi insiti nella risposta a tale quesito, si può comprendere abbastanza facilmente perché Eraclito preferisse ad ogni simbolo artificiale la contemplazione diretta della natura. Conseguentemente, celebrare sacrifici cruenti serve tanto poco a purificarsi che è come «se uno, cacciatosi nel fango, volesse lavarsi col fango» (fr. 5)..
Il sentimento profondo dell’identità del pensiero vero con la legge dell’universo ispira a Eraclito una concezione perfettamente conseguente della vita morale: «La sapienza – egli dice, precorrendo gli Stoici – consiste nel dire cose vere e nell’agire conforme a natura» (fr. 112); «Per gli uomini non è la sorte migliore che accada loro quel che desiderano» (fr. 110), e la passione va condannata perché esprime la pretesa di uno o di molti di innalzarsi al di sopra dell’ordine naturale o divino, da cui l’uomo dipende. Quando l’uomo non dà ascolto alla ragione più alta per mezzo di un profondo sentire, egli si comporta in modo irragionevole pur sapendo molte cose e apparendo razionale. C’è infatti una razionale irragionevolezza alla base del comportamento presuntuoso dell’uomo. Ma l’uomo non sa, proprio per l’ignoranza che è la causa della sua boria, di fare con la sua irragionevolezza il suo stesso male. Così, ogniqualvolta pretende di innalzarsi al di sopra dell’ordine naturale o divino, il Dio lo chiama marmocchio, proprio come l’adulto chiama testardo il fanciullo che non sa nulla delle cose della vita (fr. 79).
Circa la felicità, Eraclito sostiene che non potrà mai provare vera gioia chi non sia capace di contemplare la natura, e che sarà sempre insoddisfatto o afflitto chi è incapace di trovare una regola ragionevole di vita, indipendentemente dagli altri o, se è il caso, anche in contrasto con i gusti e le predilezioni dei più: «Se la felicità si identifica con i piaceri del corpo, diremo felici i buoi, quando trovano piante leguminose da mangiare» (fr. 4); per lo che, mentre «i più pensano a saziarsi come bestie da ingrasso» (fr. 29), «una sola cosa preferiscono i migliori: la verità immortale rispetto alle cose passeggere». È per questo, dice Eraclito, che «per me uno vale diecimila, se è il migliore» (fr. 49).
Essenziale non meno che profondo, ma anche originale e vigoroso, il pensiero di Eraclito improntò di sé perfino le concezioni di pensatori che ne furono gli avversari più risoluti, mentre la teoria dei contrari ha variamente influito sui moderni, per i quali il nome del filosofo di Efeso rimane legato principalmente alla filosofia del divenire e alla dialettica, che in una delle sue molteplici accezioni indica una concezione della realtà in termini di opposizione e di lotta, e di uno sviluppo che tende al superamento dei contrasti. Quantunque Eraclito venga di solito contrapposto a Parmenide, che è considerato il filosofo dell’essere, dell’identità e dell’immobilità, Heidegger cercò di porre in evidenza la vicinanza tra la concezione eraclitea del logos con quella parmenidea dell’essere, ritenendo che entrambe le teorie riguardassero la verità intesa come a-lètheia, ossia come “non-latenza”, disvelamento dell’essere, e quindi come sua manifestazione.

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3 risposte a La filosofia del divenire di Eraclito

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